RIFLESSIONI SPARSE SUL CALCIO GIOVANILE, CON DAVID DI MICHELE

A cura di Christian Maraniello

Le riflessioni sugli annosi problemi del calcio giovanile italiano proseguono, con un altro importante contributo di un ex calciatore, David Di Michele, che ringrazio, il quale ha raccolto la mia iniziativa con molta partecipazione.

Devo dire che l’entusiasmo con cui ha parlato delle numerose criticità del nostro movimento giovanile è stato contagioso. E’ lo stesso impeto di quando, dal nulla, si è inventato quella rovesciata psichedelica contro il Milan che ha consentito alla Reggina di salvarsi, nel lontano 2003-2004.

Ad ogni modo, tralasciando le sue vecchie perle tecniche, e restando nel tema che ci occupa, David – come leggerete nel prosieguo – ha approfondito argomenti che a me stanno molto a cuore, come il “risultatismo” e la follia incontrollata dello “stranierismo”, il tutto calibrato dietro all’onda radioattiva del business.

Lo diciamo da tempo, del resto: se il nostro attuale sistema vive più di speculazione che di passione, il fallimento (tecnico) sarà il destino naturale.

Ed è proprio il business uno degli argomenti ricorrenti nella anamnesi di David, che tuttavia ci ha anche parlato del suo passato, della sua infanzia, di come cioè da bambino non faceva altro che giocare a calcio, così sculacciando i ragazzi di oggi, che hanno perso la passione, i sentimenti e la voglia di sacrificarsi.

E’ stato un vero piacere sentirlo parlare, peraltro anche di cose positive, come del calcio femminile, oppure della sua esperienza nell’under 16 del Frosinone, e di come cerca di migliorare i suoi ragazzi, per farli crescere avvicinandoli al calcio che conta.

Io continuo a pensare che queste semplici riflessioni non diventeranno lettera morta, anche perché ricordare l’esperienza di giocatori importanti servirà per le generazioni a venire, sempre che – ovviamente – questi ragazzi sappiano cogliere i giusti insegnamenti.

Non c’è solo il calcio giocato, fatto di letture difensive, stop, controlli orientati, spaziature, ma anche quello collocato in una dimensione più astratta ed empatica, culturale, che abbraccia quindi l’etica ed il rispetto nelle sue forme più pure.

Come infatti mi ha detto il talento di Guidonia: “Se il nostro calcio vuole migliorare, deve partire assolutamente da qui: dai giovani, ma anche dalla promozione di una cultura diversa da quella odierna”.

Ed è proprio da questi temi che David inizia nelle sue riflessioni.

Intervista a David Di Michele

 

– Caro David, intanto grazie della cortese disponibilità. Il primo spunto di questa lunga riflessione lo prenderei dalla recente proposta di Giovanni Galli, all’indomani della rissa che ha visto coinvolti i genitori durante una partita della categoria esordienti, cioè obbligarli ad “allenamenti pedagogici”, ossia riunioni rieducative con psicologi, dirigenti sportivi e pedagogisti, su come ci si comporta nel mondo del calcio, anche sugli spalti. Cosa ne pensi?

Andare a vedere i propri figli giocare e comportarsi in quel modo è una sconfitta per gli stessi genitori.
Detto questo, l’iniziativa di Giovanni è molto intelligente, perché è arrivato davvero il momento di far capire ai genitori che il calcio è divertimento e passione, senza dimenticare che dentro di esso ci sono le emozioni, la voglia di vincere, il rispetto.
Ho avuto Giovanni come Direttore Sportivo in passato: è una persona di valori umani importanti e quindi non mi sorprende che questa iniziativa sia arrivata da lui, ma ripeto è una idea molto bella, ed allo stesso tempo molto difficile, perché non tutti accetteranno questa situazione, però se avrà un seguito sarà una lezione per tutti.

– Pensi che quindi questa idea possa essere un primo passo verso la promozione della cultura e del rispetto nel mondo del calcio, specie a livello giovanile, e che quindi debba coinvolgere tutte le realtà sportive, magari su input federale?

Io penso che tutte le società debbano avere questo tipo di modello, anche se ci vuole molta forza per attuarlo. Resta comunque un segnale importante che non va sottaciuto e neppure dimenticato, per cui è anche questo un bel modo per discuterne, e ti ringrazio.
Sai, il calcio giovanile sta prendendo una brutta piega e spesso è anche colpa degli stessi genitori, che chiedono già l’intervento di procuratori quando i propri figli hanno solo 7, 8, 9 anni, e spostano i ragazzi da una società all’altra senza alcun criterio.
Quanto agli input federali, sono d’accordo con te. Se anche in Federazione si cominciasse ad inserire delle piccole regole che, piano piano, vanno a migliorare, o quantomeno a limare certe storture, penso che sia un vantaggio per tutti, soprattutto a livello culturale, perché siamo molto indietro, e dalle altri parti queste cose non succedono.
Se il nostro calcio vuole migliorare, deve partire assolutamente da qui: dai giovani, ma anche dalla promozione di una cultura diversa da quella odierna.
Ti dico la verità, a me fa piacere che riviste come la vostra siano molto attente a queste situazioni.

– Durante la tua carriera da allenatore, hai avuto anche tu problemi di questo tipo?

Per il momento no, e penso sia una gran fortuna e quindi spero non mi capitino mai, perché non saprei come comportarmi sul momento. Probabilmente la prima cosa che farei è fermare la partita, e portare i bambini negli spogliatoi, per non fare vedere loro quello che succede sugli spalti.

– La rivista sta sensibilizzando moltissimo i talenti che intervistiamo su questi valori fondanti, e devo dire che molti di essi dimostrano sensibilità al riguardo (abbiamo iniziato con Gabriele Corbo classe 2000 del Bologna e dell’under 19 italiana, poi con Alessandro Russo del 2001, sempre dell’under 19 azzurra, sino a passare per Mazza, 2000 del Bologna, Bellodi 2000 del Milan e della nazionale under 19, Gasparini del 2002 e della nazionale under 17, ed altri).
Pensi che questa piccola voce possa aiutare a far crescere questi valori nel calcio, partendo proprio dai giovani, oppure credi sia una chimera?

Si, ho letto qualche intervista e vi faccio i complimenti, perché sono ben strutturate e mai banali. Poi certo, quando leggi di ragazzi del 2000 o del 2001 intervenire su argomenti così delicati, non può che essere positivo per tutto il sistema, anche perchè queste voci vanno a formare una catena, e rimbombano in maniera molto roboante.
Io penso che questa vostra iniziativa debba essere portata avanti con continuità, anche perché coinvolgendo questi ragazzi su argomenti così difficili poi capiscono che non c’è solo il calcio giocato, che resta chiaramente il più importante, ma non è il solo e se loro interagiscono con sensibilità sono a metà dell’opera.
Quindi, complimenti ancora.

– Ne ho anche parlato con Dino Baggio e Antonio Cabrini di questi aspetti, ed anche loro mi hanno confermato che con i ragazzi bisogna parlare più spesso anche di rispetto e di etica.

Sono convinto che sia molto più importante parlare con i ragazzi di etica e di rispetto, piuttosto che di calcio giocato, di tattica e di tecnica.
I ragazzi, come sottolineate spesso, stanno perdendo i valori dello sport, e le colpe sono da attribuirsi un po’ a tutti i livelli: dagli stessi ragazzi, sino ad arrivare ai genitori, al sistema calcio in generale, e poi i social media.
I ragazzi devono capire che comunque il calcio, quello vero, è fatto di sacrificio e rinunce, e purtroppo non hanno nessuno che spiega loro questi aspetti, per cui anche noi allenatori, oppure ex giocatori, dobbiamo metterci più impegno.
Io ti posso dire che ai miei giocatori (alleno gli under 16) parlo spesso di come ho affrontato il mondo del calcio da ragazzino, alle cose rinunciate, ai sacrifici, a come bisogna affrontare questo mondo.

– Il 24 maggio in Vaticano si è tenuto un evento dal titolo “Il calcio che amiamo”, organizzato dalla Gazzetta dello Sport con la Santa Sede. Tra i tanti passaggi più emozionanti del Pontefice, vi sono questi: “La felicità è dare un pallone a un bambino per giocare (…), dietro a una palla che rotola c’è quasi sempre un ragazzo con i suoi sogni e le sue aspirazioni (…). Spesso si sente dire anche che il calcio non è più un gioco: purtroppo assistiamo, anche nel calcio giovanile, a fenomeni che macchiano la sua bellezza. Ad esempio, si vedono certi genitori che si trasformano in tifosi-ultras. Il calcio è un gioco, e tale deve rimanere (…). Si rincorre un sogno, senza però diventare per forza un campione. È un diritto non diventare un campione”. Ecco, riflettendo un attimo davanti a queste parole significative, credi che il calcio stia davvero perdendo la magìa che aveva nella nostra infanzia?

Si c’ero anche io e la mia squadra a quell’evento, ed è stato emozionante ascoltare le parole del Papa.
Il Santo Padre ha detto delle parole verissime: i bambini non giocano più per strada. Io mi ricordo che giocavo a pallone sempre, tutti i giorni, al campetto, sulla strada, insomma dove capitava.
E’ anche vero che noi avevamo poche distrazioni rispetto ad oggi, però questo a me sembra più un alibi che altro. I ragazzi oggi stanno tutto il tempo a giocare alla playstation, oppure su instagram, su facebook, e quindi stanno perdendo di vista i veri valori del calcio, quali la passione, il divertimento.
Per noi il pallone era un modo di aggregazione, di comunità, di amicizia.
Ecco la vera differenza: quando noi vedevamo un pallone si scappava a giocare, mentre invece oggi i ragazzi tra la playstation ed una partita a calcio preferiscono la play. E’ pazzesco.
Chiaramente c’è anche un problema del settore giovanile in sé: non si insegna più quali sono le cose giuste e concrete del calcio, come la tecnica, il palleggio, il passaggio a muro, lo stop, ecc. Agli allenatori di oggi interessa solo il risultato, perché l’insegnamento è passato forse addirittura in quarto piano.
Questo poi determina storture che poi anche la vostra rivista spesso mette in rilievo, come il fatto che le società prendono ragazzini o bambini già formati fisicamente, a discapito dai giocatori piccolini ed esili (ma tecnicamente migliori). E tutto per cosa? Vincere ad ogni costo.

– Mi stai rubando le domande! Sono cose che mi fanno impazzire, ma ne parliamo dopo.
Abbiamo detto che il calcio è legatissimo al business, ed i ragazzi, in età ancora adolescenziale – complice anche il ruolo incontrollato dei social media – tendono a comportarsi come fossero dei professionisti. Da uomo di calcio e di sport in generale, trovi che i giovani calciatori di oggi siano cambiati rispetto alla tua epoca?

Ma guarda è semplice. Io quando andavo ad allenarmi salutavo tutti. Massimo rispetto verso tutte le persone che, innanzitutto, erano più grandi, ma che poi facevano parte della società. C’era poi il rispetto dei ruoli.
Il rapporto con l’allenatore era un rapporto serio, non come oggi, che ti mandano il messaggino, o ti chiamano.
Il rapporto che c’è adesso è diverso. Se ti salutano devi ringraziare il padreterno, e se gli dai un consiglio tecnico (esempio, se in quel frangente ti sei messo male con il corpo) ti dicono “si ok va bene” come se non stessero ascoltando, e difatti poi rifanno gli stessi errori, quindi la situazione è particolare, veramente difficile da gestire, perché noi siamo cresciuti con una mentalità totalmente diversa.
Per esempio, quando ero ancora piccolo, alla fine degli allenamenti, dovevo raccogliere tutto il materiale, ed anzi non era proprio una imposizione, perché a me faceva piacere, mentre adesso non lo fanno. Per fortuna al Frosinone queste cose non capitano, ma resta comunque un problema di rispetto.
Adesso tutti si credono Ronaldo e Messi, ma non sanno che questi due fuoriclasse sono molto umili, ed hanno valori umani importanti.

– Ti segnalo che sulla Gazzetta dello Sport del 24.6.2019 è stata pubblicata una interessante intervista alla Panico, CT della nazionale under 15, la quale sostiene che “con i ragazzi si lavora bene, sono disponibili al sacrificio (…). Educare i valori sportivi dei giovani di oggi significa avere dei calciatori pronti in futuro, sotto l’aspetto calcistico e del comportamento”. Ti ritrovi in queste parole?

Mi ritrovo nettamente in queste parole, però vorrei dire una cosa, e cioè che bisognerebbe fare queste interviste più spesso, ed oltretutto non solo a livello di nazionale, ma anche di club!

– Lo dici a me? Non sai quante volte chiedo alle varie società di poter intervistare dirigenti delle giovanili su queste tematiche, oppure gli stessi ragazzi, ma c’è poca collaborazione!

Ma guarda, posso anche immaginare. Penso che debba venire naturale da parte di tutti, anche noi allenatori, perché queste voci sono importanti, come spesso dite voi, e come abbiamo discusso poco fa.
Se vogliamo davvero cambiare questo sistema giovanile bisogna cominciare anche da qui. Da queste riflessioni.
I ragazzini di 14 anni cosa sanno del mondo del calcio? Nulla. Niente. Zero.
Ed i ragazzi non devono avere come maestri i social media o i procuratori, ma noi allenatori, formatori, insegnanti di calcio ma anche di vita, fuori dal campo.
Senza contare che poi la maggior parte delle volte prendono esempi sbagliatissimi, di calciatori famosi, con gli orologi d’oro, le auto sportive, le stupidate che fanno in giro. Non vanno a vedere gli esempi positivi, come Roby Baggio che si sacrificava, lottava dopo gli infortuni.
Ecco perché auspico maggiore disponibilità comunicativa da parte di tutti gli addetti ai lavori, e quindi da noi allenatori, e delle società in generale, così da poter esprimere le nostre idee alle riviste come la vostra, sempre attentissime alla valorizzazione del calcio giovanile italiano, ed alla sensibilizzazione verso tematiche poco dibattute.
Non so, forse sono tematiche scomode? A me fa piacere parlarne, ed anzi ne approfitto per ringraziarti di avermi dato questa opportunità.

– Penso proprio di si, perché scomode. Hai centrato il punto. O uno dei punti.
Ma torniamo allora un attimo alla questione stranieri.
Ci sono tanti addetti ai lavori che sculacciano il calcio italiano: recentemente il CT Roberto Mancini, ha dichiarato: “dispiace vedere molti giocatori italiani in panchina. Spero sempre che gli italiani giochino, sono convinto che molti di quelli che sono in panchina sono molto più bravi degli stranieri che sono in campo”.
Oppure Vincenzo D’Amico, in una intervista del 19.2.2019 (qui il link: https://gazzettaregionale.it/notizie/d-amico-giovanili-troppi-stranieri-e-su-lotito): “Basta fare un piccolo esperimento. Leggere le formazioni delle squadre Primavera o dell’Under 17. Quanti stranieri troviamo? Tanti. E sai perché? Perché c’è maggiore margine di guadagno. Un calciatore che viene dall’estero, anche se non rende al massimo, rimane un’ottima pedina di scambio. E’ più difficile crescere un italiano”.

Io penso che il problema degli stranieri, nel calcio giovanile italiano, sia clamoroso. Se non escono talenti è anche per colpa di questo sistema allo sbando, che permette l’arrivo incontrollato di ragazzini da ogni parte del mondo.
Gli stranieri costano poco e sono più appetibili.
Le società devono avere più coraggio e lo si dice sempre ma nessuno fa mai niente, quindi si fa fatica a tornare come un tempo.
Non è possibile vedere delle rose di alcune “primavere” così piene di stranieri, anche più della metà, per cui i ragazzi italiani sono molto penalizzati.
Questo aspetto è molto negativo per il calcio italiano perché così facendo sembra quasi che non si crede tanto nel nostro bacino, ma il nostro movimento è importante, e lo è sempre stato.
Purtroppo non abbiamo il coraggio di farli giocare, perché siamo alla preistoria, abbiamo la cultura del risultato, ad ogni livello, anche sin da bambini.
Ma quando cominceremo a fare qualcosa? Bisogna muoversi alla svelta, perché qua stiamo degenerando.

– Esattamente. Tra l’altro questa “pratica” ci porta diritti ad uno dei maggiori problemi legato agli stranieri, e che hai già tirato fuori, ossia il trip del “risultatismo”. Si sviluppano rose già a partire dagli under 9 o 10 dove la fisicità la fa da padrone, creando evidenti storture nei campionati, perché a questa età la società X che mette in campo bambini o ragazzini possenti e sviluppati (specie se provenienti da altri continenti) diventa imbattibile. Cosa ne pensi?

Lo sottolineavamo prima: fin da piccoli viene inculcata la follia del risultatismo, della vittoria ad ogni costo, ed è la realtà, nuda e cruda.
C’è poco da fare, sono necessarie delle regole, delle riforme strutturali, come quelle di mettere delle norme che obbligano le società a prendere al massimo 4 stranieri, così anche le squadre sono livellate. Un po’ come si faceva una volta in serie A: c’erano tre stranieri, o quattro. Ecco, lo dovremmo fare anche nel settore giovanile.
Penso che sia un segnale importante.
Cioè, non è possibile che molte società vadano alla ricerca di bambini, all’estero, e li facciano arrivare qua. Incredibile davvero.
Il calcio non è solo vincere, ma collaborazione, rispetto degli avversari, valori, e quindi quando non ci sono più queste cose c’è poco di cui lamentarsi. Il sistema ha perso.
Ci vuole un taglio netto. Radicale.

Credi che le seconde squadre possano aiutare?
Te lo chiedo, perché poi questo flusso continuo di stranieri castra un intero movimento come il nostro, che secondo me è all’avanguardia del calcio mondiale, perché costringi i ragazzi a trasferirsi all’estero, per giocare, già a 16 anni: ne sono esempio Cudrig (2002) che è andato in Belgio, Pellegri in Francia e Scamacca in Olanda.

Guarda, alla mia epoca nessuno andava a giocare all’estero, come i talenti che mi hai citato. Nessuno.
Sulle seconde squadre sono d’accordo. Se fatte in funzione di questa idea di non perdere i nostri ragazzi, certamente possono aiutare.
Si potrebbe anche pensare di fare un campionato solo per le seconde squadre; oltretutto diverrebbero un ottimo bacino per le società stesse, che così avrebbero la possibilità di capire su chi puntare.
Io penso che aiuterebbe però anche tutto il sistema nazionale.

– Parliamo di calcio giocato: tutte le nostre rappresentative nazionali, dalla under 21, passando per la under 20 (mondiali), e sino ad arrivare alla 19 e 17 si sono ufficialmente qualificate alle fasi finali degli Europei e mondiali. Ad esempio l’under 17 è arrivata ancora in finale all’Europeo perdendo ancora contro l’Olanda. L’under 20 ha fatto un ottimo mondiale, arrivando quarta.
Molti di questi ragazzi li abbiamo schedati, ed anche conosciuti con delle interessanti chiacchierate pubblicate sulla rivista.
A mio avviso è un grande traguardo per il nostro calcio. Ci puoi dare un tuo parere al riguardo?

Non c’è alcun dubbio che la Federazione stia lavorando bene, nonostante le numerose difficoltà del sistema, e quindi è giusto sottolineare anche i meriti.
Ho visto la conferenza stampa di Di Biagio e ti dico che è stato brutto sentire dire dai giornalisti che al di là di tutto “non abbiamo vinto”.
Io credo invece che Di Biagio ha ridato “verve” alla nazionale under 21, dopo anni di anonimato. Non dimentichiamoci che in questo Europeo c’erano della nazionali fortissime, come la Germania, il Belgio, la Francia, la Spagna (che abbiamo battuto) che oltre ad essere più avanti rispetto a noi come mentalità culturale giovanile, sono Paesi che non si fanno problemi a puntare sui giovani, anche tra i professionisti.
Non sono d’accordo quindi con chi parla di “fallimento” dell’under 21. Io mi sono divertito, ho visto anche delle bel gioco, buone trame, idee, come approccio insomma.
Ci stiamo riavvicinando, quantomeno a livello tecnico.

Ci parli della tua esperienza al Frosinone? Ed in particolare se puoi raccontarci l’annata appena terminata con l’under 16.

L’annata è stata importante, bella e devo dire anche inaspettata, perché questo gruppo non lo conoscevo quando sono arrivato.
Abbiamo ottenuto risultati importanti attraverso un gioco interessante, e devo ammettere che ci siamo confrontati anche con squadre più forti, come Roma, Napoli, Benevento (che quest’anno aveva una squadra veramente di grande livello) senza fare brutte figure, anzi, nessuno ci ha messo sotto.
Ti dico che l’arrivo ai play off è stato un traguardo per me fantastico, e oltretutto siamo usciti contro una squadra molto organizzata e forte, come l’Empoli, che con noi ha vinto solo al 93esimo, andando poi a vincere il campionato nazionale.
L’Empoli ha segnato a tutti 4 gol, mentre contro di noi ha vinto solo all’ultimo secondo, e per me questo è stato un grande merito dei miei ragazzi.
Ma del resto quando si lavora bene, con serietà, collaborazione, voglia e fame si fa sempre tanta strada.

Che allenatore sei?

Io sono un allenatore a cui piace lavorare sul campo. Poi quando siamo fuori si può anche ridere, scherzare, ma dentro il rettangolo di gioco si lavora. Punto.
Dopo aver portato sul campo la mia passione, cerco di trasmetterla anche ai miei ragazzi, e questo penso sia importante non solo per me – che comunque cresco con loro e mi miglioro come tecnico – ma anche per la società, che mi ha dimostrato tanta stima, e devo ringraziarli perché mi hanno dato questa grande opportunità.
In particolare ringrazio il Direttore Salvini che quando abbiamo avuto il colloquio mi ha fatto un’ottima impressione, e non smette mai di darmi consigli.
A me pare sia contento del mio lavoro e questo mi gratifica.
I ragazzi mi seguono, e questo aiuta tanto, non c’è dubbio. Ma bisogna sempre migliorare. Tutti.
Poi sai quando c’è da bacchettare non mi tiro mai indietro, uso il bastone e la carota.
Speriamo che quest’anno con l’under 17 miglioreremo ancora, ma sono sicuro che faremo bene, visto che poi i ragazzi sono ad un anno dalla Primavera, e poi chissà: a 17 anni cominciano a proiettarsi nel calcio che conta, ed in prima squadra c’è Alessandro Nesta che non ha paura di fare giocare i giovani, quindi può pescare anche da noi.
Il nostro è un grande gruppo, con tanti ragazzi interessanti, anche se ovviamente non faccio nomi per non fare torto a nessuno, ma sono contento di loro.
Spero che questo rapporto si vada a consolidare ancora di più.

– A proposito di risultatismo, stranieri e fisicità, secondo la tua esperienza come coach a livello giovanile, pensi che il concetto di associatività possa essere in antitesi con lo sviluppo della tecnica di base, anche individuale?

Io lavoro tantissimo sulla tecnica, perché questa va sempre migliorata, ad ogni età, ma devo dire che lavoro anche con la tattica.
Attenzione però che purtroppo mi sto accorgendo che ci sono ancora ragazzi che non sanno posizionarsi con il corpo, perché nessuno insegna loro, da bambini, l’ABC del calcio. Vedo che ad esempio ci sono ragazzi che non sanno leggere le varie situazioni di gioco, come “palla coperta – palla scoperta”, e per come la vedo io è una cosa grave.
Per cui si lavora tanto su questi aspetti, ed io ci tengo molto, perché li voglio aiutare a migliorare.

– C’è qualche talento delle giovanili che ti sta impressionando particolarmente?

Ed inoltre Ti chiederei chi, secondo te, della nuova generazione (diciamo a partire dalle promesse della classe 2001, 2002, 2003, 2004) sta emergendo. Ci puoi dare alcuni nominativi e soprattutto qualche dettaglio tecnico?
Ce ne sono tanti, ma uno che mi sta impressionando è Pagano, della Roma. E’ un 2004. Ha la testa da giocatore già fatto, nonostante abbia solo 15 anni.

– Parliamo di calcio femminile: Ti chiediamo innanzitutto a che punto è il nostro calcio e se credi che per migliorare la visibilità sia ormai necessario passare al regime professionistico, come paventato recentemente da Gravina, o se invece paventi anche riforme strutturali.

Il calcio femminile sta avendo una evoluzione importante, e la prova è certamente lo share ai recenti mondiali. C’è tanto entusiasmo intorno a questo movimento, e quindi penso che le ragazze stiano facendo molto bene, anche perché è tutto merito loro e della Federazione (oltre che dei vari club che stanno puntando molto).

– Ti chiederei anche quali sono dal punto di vista tecnico le reali differenze con il calcio maschile. Te lo chiedo perché io una idea me la sono fatta, però devo dire che guardando questi mondiali – al di là delle ovvie differenze agonistiche (intensità di gioco, e fisicità) – non mi pare che le differenze siano così marcate.
In realtà Antonio Cabrini (intervista in corso di pubblicazione) mi ha detto che sono due sport totalmente diversi. Credi sia effettivamente così?

Certamente non è il calcio della serie A maschile, perché i ritmi sono diversi, ma non possiamo dire che le ragazze non ci mettano il cuore, l’anima e la passione, e quindi sotto questi aspetti non cambia nulla tra uomo e donna: è calcio.
Ho visto diverse partite al mondiale e mi sono divertito. Molte ragazze hanno una tecnica importante, come ad esempio la colombiana (non ricordo il nome) che fa sempre la stessa finta ma non la prende mai nessuno

Grazie David.

Grazie a voi. Un saluto ed un abbraccio a tutti.

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