Allenare l’autonomia con una nuova idea di calcio
DUE PAROLE CON MISTER LORENZO VIVARELLI ED IL SUO STAFF
A cura di Christian Maraniello
L’idea di conoscere la metodologia di Mister Lorenzo Vivarelli, mi è venuta durante la lettura di un suo articolo intitolato Il giocatore non pensante non esiste.
L’ho contattato telefonicamente per avere dei chiarimenti e finimmo per discutere di calcio e di tutte le sue sfumature per ore, sino a quando – pressato dalle mie insistenti richieste – è entrato nel dettaglio del suo lavoro, parlandomi soprattutto del suo staff, di cui fa parte Mister Lorenzo Rossi, quale secondo allenatore, nonché la Dr.ssa Elena Di Chiara, quale psicologa dello sport.
Peraltro, sarebbe stato anche interessante analizzare i loro curriculum accademici, che Vi assicuro essere di alto rango, giusto per avere un quadro più ampio dei singoli profili, ma abbiamo convenuto di evitare, per ragioni di opportunità.
Dunque, dicevo del mio proposito di comprendere questa nuova forma di approccio espressivo, che con il passare dei minuti prendeva sempre più forma, come quel sound che cresce piantandoti le dita nello sterno e ti obbliga ad ascoltare, oltrepassando tutte le linee in gesso che formano i contorni cartesiani di quella spettacolare res extensa che è il campo.
Sentirli, mi ha fatto venire voglia di vederli sul campo, di farmi trasportare dalle onde (anche) pedagogiche che pertengono al “linguaggio comunicativo con i ragazzi”. E non Vi so dire se è questo il loro manifesto didattico, ma è certamente l’abbrivio che costruisce un codice in continuo mutamento.
Credo che nell’ecosistema malato del calcio italiano la chimica delle idee possa alimentare quella parte di “umanità” per cui non sono ancora discesi né l’illusione, né i pantaloni, così da poter dare spazio a questi piccoli, grandi, avamposti, nell’augurio che – un giorno – la meritocrazia venga rispettata e non derisa dai soldi degli sponsor, né da forme estenuanti di malpractice di infima natura.
Il calcio – specie a livello giovanile – ha bisogno di competenza, di ruoli definiti, di conoscenza, di novità, di sperimentazione, di fiducia. Ma soprattutto di interrogarsi seriamente sulle egolatrie.
Inizio intervista
Intanto, caro Lorenzo, ringrazio Te ed il Tuo staff per la disponibilità.
Io direi che sulla metodologia di lavoro ci arriveremo per gradi. Voglio partire con un mio trip, che è il prologo di una relazione che pubblicai pochi giorni fa, su un talento creativo slovacco (Samuel Sarudi, classe 2006): “Il calcio non è un vocabolo, ma un vocabolario”.
Lorenzo Vivarelli: Mi viene da risponderti: “magari”. Il calcio è un vocabolario personalissimo. Ogni giocatore, mister, allenatore in seconda, dirigente, ex-giocatore, tifoso ha il suo.
La magia avviene quando il vocabolario è condiviso dal gruppo con cui si lavora, voglio dire quando la squadra e il suo staff parlano la stessa lingua, si capiscono e riescono a condividere idee, termini e metodologie. Solo allora si crea un vocabolario condiviso, dal quale si ricavano le proposte metodologiche.
Elena Di Chiara: La costruzione di questo vocabolario è l’obiettivo primario che metto durante la fase di preparazione estiva. Sono determinata nel farlo nella prima parte del percorso perché lo ritengo la base, le fondamenta del lavoro futuro.
Lorenzo Rossi: Quest’anno io sono stato nelle condizioni di impararlo il vocabolario dei miei colleghi. È stato un lavoraccio, ma oggi a due mesi dall’inizio, ho appreso una lingua che nella realtà è molto semplice. Bisogna lasciarsi andare, crederci, fidarsi dei colleghi che hanno tanto da insegnare e ai quali, ho scoperto (!) anche tu hai qualcosa da insegnare…
Insomma, se ho ben inteso, il vocabolario del Vostro percorso dinamico si costruisce giorno dopo giorno, attraverso un modello (o processo) condiviso.
Ecco, datemi una definizione di “allenatore”.
Lorenzo Vivarelli: L’allenatore è un facilitatore di percorsi: cioè è una che persona mette in comunione con il gruppo dei principi e delle filosofie che devono poi essere elaborate all’interno del gruppo squadra per creare il proprio gioco.
L’allenatore e la sua metodologia non devono essere il punto di arrivo per i ragazzi, ma un approdo sicuro da cui eventualmente ripartire in caso di smarrimento… Un porto al quale fare ritorno durante le tempeste.
Elena Di Chiara: È lo skipper di una barca a vela. Tutto funziona se c’è fiducia reciproca, se si crede l’uno nel lavoro dell’altro e si conduce la nave in collaborazione e armonia. Insomma per uno psicologo dello sport, l’allenatore (mister, coach, istruttore) è il coordinatore del lavoro dello staff e del gruppo atleti. Da lui parte una metodologia di lavoro; con un continuo scambio di informazioni e idee, bisogna semplificargli la strada per arrivare dove lui ha deciso.
Lorenzo Rossi: Non è solo un tecnico, ma deve essere bravissimo nella gestione delle proprie emozioni che devono rispecchiarsi nella squadra. Ha un ruolo ingrato, perché non solo non può permettersi di sbagliare quasi mai, ma non può nemmeno permettersi di rendere esplicite emozioni negative e stress.
In pochi ne parlano, ma esiste anche il secondo allenatore, che in un certo senso introduce e ci avvicina alla Vostra metodologia, dove gioca un ruolo di rilievo pure la Psicologia dello Sport. Vorrei anche in tal caso una risposta a sei mani.
Lorenzo Vivarelli: Di un allenatore in seconda ci si deve poter fidare. È una figura chiave spesso sottovalutata o relegata in spazi troppo angusti. Un secondo deve sostenere la metodologia del primo allenatore e potenziarla, deve conoscere i programmi informatici, deve saper lavorare con i video e deve riuscire ad attivare canali comunicativi con i ragazzi, in concerto con la psicologa dello sport.
Lorenzo Rossi: Troppo spesso la figura del secondo è relegata all’espletamento dei compiti pratici, come per esempio preparare il campo da gioco con conetti e quant’altro.
Ma in realtà siamo fuori strada: il secondo allenatore è una figura chiave, uno “spartitraffico” tra la squadra e l’allenatore, che spesso riesce a ricavare da una seduta di allenamento un numero di informazioni anche maggiore rispetto a quello del mister: dagli aspetti tecnici e tattici emergenti fino alla scoperta di problematiche di campo. Ed ecco che in quel momento ha il compito di portare soluzioni al mister e non ulteriori problemi. Le elabora solitamente in quei pochi passi che separano lo spazio dove si è svolta la seduta dallo spogliatoio.
Il secondo, inoltre, deve saper gestire le situazioni che capitano fuori e dentro il campo: i ragazzi, come gli adulti, accumulano stress e ansie anche a scuola, in famiglia, nelle relazioni sociali. L’allenatore in seconda deve saper ascoltare, parlare e consigliare perché lo scopo è quello di alleggerire, scaricare il peso e gettare a mare la zavorra prima del match.
Il secondo cerca di capire i caratteri dei ragazzi: chiede quali sono le loro abitudini, che cosa li fa stare bene. Niente è però improvvisato. Il secondo non è e non può essere uno psicologo e infatti si appoggia alla psicologa dello sport per acquisire le tecniche di comunicazione e riferisce alla dottoressa gli esiti di alcuni colloqui, delegando a lei gli aspetti inerenti il suo lavoro.
Elena Di Chiara: Ed ecco che entro io con il mio ruolo, cercando di aiutare i mister a instaurare un rapporto franco e onesto con i giocatori; creare quella fiducia di cui parlano i miei colleghi è proprio il mio obiettivo primario.
Avete introdotto uno degli argomenti in assoluto che più mi sta più a cuore e che peraltro dovrebbe interessare tutto l’ecosistema calcistico giovanile (sul quale però sorvolerei, per decenza), ossia i “canali comunicativi con i ragazzi”.
La materia è vastissima e qui è davvero complicato poterla discutere nella sua interezza, tuttavia mi piacerebbe quantomeno parlare di uno dei principali frame, che è l’empatia.
Non voglio una definizione tecnica, semmai mi interessa capire in che modo essa influisca nel Vostro lavoro quotidiano con i ragazzi, quindi non solo a livello di rapporti umani, ma proprio dentro il gioco del calcio, nell’attività concreta di campo.
Immagino che la prima risposta arrivi dalla Dr.ssa Di Chiara.
Elena Di Chiara: Essere empatici con i ragazzi serve, ovviamente. Tuttavia non è una capacità che tutti abbiamo. C’è sicuramente un’inclinazione iniziale, ma è una dote che va allenata e soprattutto saputa gestire. Qui parte la mia crociata personale contro i Mister che si definiscono psicologi. Permettere ai ragazzi di parlare non è difficile. Un altro discorso però è saper reggere il voltaggio delle risposte di un atleta. Se non si hanno mezzi e competenze per ascoltare, comprendere, aiutare, il rischio è quello di far danni. Prendi un tavolo, sembra saldo e stabile perché ha imparato la tecnica per sembrare saldo (passamela). Ma se poi ti ci appoggi che succede? Crolla il tavolo, crolli tu e probabilmente ti tiri dietro tutta la squadra.
Fatta questa premessa, l’importanza di comunicare in maniera efficace con il gruppo è ovviamente vitale. Ormai è chiaro che lo stile direttivo, militaresco e aggressivo crea un ambiente di lavoro molto poco produttivo; si è capito invece che cercare di lasciare la possibilità ai ragazzi di esprimersi ha una correlazione positiva con le performance di squadra e individuali. Giocatori che possano giocare, sicuri che le loro scelte verranno comprese dai mister, anche se magari “corrette”, consigliate, migliorate, permette di trovare strategie alternative che in un mondo in continua evoluzione come quello del calcio è l’unica strategia vincente che mi viene in mente.
Ai mister poi, cerco di insegnare che anche la comunicazione non verbale ha un’importanza non trascurabile. Gesti di disappunto, di stizza o di rabbia durante la partita vengono letti e interpretati dai ragazzi. Voi fareste bene il vostro lavoro, qualunque esso sia, se ci fosse il vostro capo o cliente a guardarvi di continuo, allargando le braccia o imprecando a ogni vostra mossa? Come vi sentireste? Pensereste a continuare a cercare di dare il meglio o a come farlo smettere di sbraitare? Ecco cosa è l’empatia in campo.
Lorenzo Vivarelli: Il gioco è empatia. Quando si gioca condividendo scelte e una base di lavoro comune, stiamo lavorando in un clima di forte empatia. E l’empatia porta divertimento, risultati e gioia. Chiaro, un mister deve sapere leggere anche le emozioni dei giocatori, ma mai e poi mai confondersi con il lavoro di uno psicologo: io ho studiato altre discipline e sono specializzato in altri ambiti, quindi non sarò mai in grado di risolvere problemi di natura psicologica. Cercare soluzioni fai da te in contesti altamente rischiosi per la formazione e per la salute dei nostri giocatori è sconsigliato. Molte società annoverano negli organici preparatori atletici, match analyst, dietologi, preparatori. E poi tutti si occupano di psicologia. È la stessa sensazione che ho quando davanti a un’opera d’arte, lo storico dell’ultima ora si mette a disquisire con termini che non conosce: ecco, lasciatelo fare a chi ha studiato. Credo che anche a lei, avvocato, darebbe fastidio se qualcuno si occupasse di diritto. No?
Naturalmente si. Ma la mia veste oggi, qui, è un’altra.
Questa domanda mi serve per introdurre un aspetto parimenti interessante, che si ripercuote sulla mia attività di scout: sono convinto che i ragazzi debbano capire il gioco, imparare a comprenderlo (quasi come un allenatore). Siete d’accordo con me?
Ve lo chiedo perché in Italia sono pochissimi i ragazzi che entrano in contatto con la comprensione (anche) didattica. Ho fatto moltissime interviste cercando proprio il confronto su anamnesi tecniche e tattiche, con profili delle nazionali giovanili, partendo dai 2000 sino ai 2005 (e qualcuno è arrivato in serie A), ed il quadro – lo dico senza giri di parole – è piuttosto avvilente. Voi che mi dite?
Lorenzo Vivarelli: Quanto hai ragione. Torniamo al discorso del vocabolario, vedi?
Se io, allenatore, insegno a un giocatore a giocare il “mio calcio” e non il “nostro calcio” è come se insegnassi a uno studente una formula a memoria, ma non un concetto o a cosa tale formula serva in realtà. E ancora, non gli espliciti che questa formula può essere usata non solo nella soluzione di altri problemi, ma anche in altre materie, ambiti, contesti di vita anche quotidiana. I giocatori devono partecipare attivamente al percorso didattico, devono sentirsi parte di una narrazione, di una storia che va avanti procedendo con gli allenamenti e con le partite. È una storia che sono loro a scrivere e che l’allenatore si “limita” a redigere.
Elena Di Chiara: Capire il gioco non è difficile. Il problema è quando si tenta di imporre una strategia unica e irremovibile a qualunque problema si incontri.
Il gioco del calcio, lo ripeto, è semplice. Le regole sono condivise e comuni. La palla va messa in rete, almeno una volta in più degli avversari. Giusto?
L’obiettivo dunque non è compiacere l’allenatore giocando i suoi schemi, ma essere in grado di creare situazioni sempre nuove (perché gli avversari, i campi, i terreni, ma anche i compagni sono sempre diversi). Ma la questione è: un mister è in grado di “farsi da parte”, di lasciare i giocatori liberi di sperimentare?
Lorenzo Rossi: Posso parlare anche da giocatore, quale sono stato fino a pochi mesi fa? Avessi avuto nella mia formazione un mister che mi avesse permesso di capire il calcio nella sua globalità e non solo nei suoi schemi, forse avrei creduto di più in me stesso. Ora godo della fiducia del mio staff, lo sento forte che mi guida, ma che anche chiede la mia opinione, il mio consiglio. La sensazione è quella che stiamo costruendo qualcosa di nuovo, di diverso, non stiamo usando uno stampino.
Senza nulla togliere agli altri interventi, trovo particolarmente significativo quanto detto da Mister Lorenzo Rossi sulla “fiducia” in se stessi. Questo conferma l’importanza della formazione dei formatori, il ruolo e le responsabilità che avete nella crescita formativa dei ragazzi.
Proseguendo nell’anamnesi della conoscenza del gioco, consentitemi il rimando a un’interessante intervista a Flemming Pedersen, team manager del FC Norsdjælland, il quale in un passaggio afferma: “That’s why we are successful in Nordsjælland at developing young players because we are not only teaching them to play the game, we are also teaching them to understand the game”.
Lorenzo Vivarelli: Già… insegnare il gioco. E contemporaneamente apprenderlo. E non solo in allenamento. Vedi, durante le partite tutti impariamo dagli avversari qualcosa. Magari se proprio non impariamo cose nuove, rafforziamo le nostre idee, le affiniamo, le confermiamo. Ogni momento della nostra vita, ogni respiro è un insegnamento. Bisogna essere consapevoli però che il gioco è in continuo mutamento, come una zattera! Sbattuta dalle onde, dalle correnti, lo squalo che ti gira intorno. Non sai cosa trovi, ma se sai padroneggiare la zattera, conosci i suoi punti deboli e quelli di forza, sarà ben più difficile buttarti giù.
Elena Di Chiara: Proprio durante il primissimo allenamento degli Juniores Nazionali, quest’anno, proposi allo staff un esercizio che si chiama “La Zattera”. Dalla risposta di mister Vivarelli capisco che qualcosa è rimasto. Io lo chiamo flusso. L’obiettivo è quello di entrare in quel flusso e seguirlo, farsi portare dal gioco e starci, giocare. In questo modo non solo diventa tutto più funzionale, ma anche la componente “divertimento” prende piede. Un giocatore che si diverte è quasi sempre un giocatore che gioca bene.
Lorenzo Rossi: Già, e ai fini dello talent scouting trovare un giocatore che ha chiari questi concetti sicuramente aiuta. Sarà un giocatore pronto verosimilmente a cambiare zattera, ma sempre in grado di riconoscere le criticità e i punti di forza. Serve eccome!
La questione delle “frequenze” è una voce che considero preminente nelle mie relazioni di scouting, anche se preferisco chiamarle in realtà “onde”, perché credo spieghino meglio i concetti – direi complementari – di consapevolezza e mutamento sistemici all’interno dei quali i ragazzi debbano saper navigare.
Mi interessa però avere una spiegazione, anche sintetica, di questo allenamento denominato “La Zattera”.
Elena Di Chiara: Volentieri, eccotelo. Abbiamo anche dei video, ma non so se c’è l’audio.
A cosa serve: consapevolezza dello spazio, armonizzazione dei movimenti di squadra, attacco dello spazio.
Materiale: segnaposto per delimitare uno spazio preciso, giocatori. Istruzioni: immaginate lo spazio delimitato come una grande zattera in mezzo al mare: per non farla affondare subito è necessario mantenerla in equilibrio. Inizia salendo sulla zattera un giocatore che si posizionerà ragionevolmente al centro dello spazio. Salirà poi un secondo partecipante. Per cui il primo dovrà spostarsi sul lato opposto per mantenerla in equilibrio. Il nuovo entrato comincerà quindi a muoversi, costringendo il primo a spostarsi di conseguenza. Dopo un minuto un terzo giocatore salirà sulla zattera, per cui i primi due dovranno riuscire a controbilanciarla, spostandosi a loro volta. Adesso quindi, se i giocatori hanno capito il gioco, sapranno che è l’ultimo entrato a “comandare” il movimento spostandosi nello spazio.
Uno dopo l’altro, a intervalli regolari, tutti i giocatori salgono sulla zattera. Ogni volta che un nuovo partecipante entrerà, sarà quello che spezzerà l’equilibrio muovendosi nello spazio e costringendo tutti gli altri a controbilanciare i suoi movimenti. Il nuovo entrato potrà muoversi liberamente, cercando anche di mettere in difficoltà i compagni. Potrà camminare, correre, saltare andare verso il centro, girare per tutto il perimetro, qualunque cosa gli passi per la testa.
Mister: Il ruolo del mister è fondamentale. È lui a verificare il bilanciamento della zattera e dare, al bisogno indicazioni ai giocatori in campo.
Perché lo facciamo? Durante una partita in cui sono coinvolti diversi giocatori è importante trovare armonia nel movimento. Sbilanciare la presenza dei giocatori su un solo lato del campo è deleterio in caso, per esempio, di perdita di possesso o di improvvisa ripartenza in attacco. Inoltre, non consente la giusta concentrazione, l’avversario si aspetta che nello spazio lasciato vuoto accada qualcosa da un momento all’altro o peggio ancora può avere l’intuizione di passare proprio di li. Infine, perché utilizzare una piccola parte di palco quando si ha a disposizione una bella scena?
In questa “pausa” lo psicologo valuta l’opportunità di proporre prima dell’esercizio “di conquista”, alcuni giochi propedeutici, atti a insegnare ai giocatori a camminare nello spazio, a mantenere le distanze e a evitare i “buchi”.
Lorenzo Vivarelli: Quando la dottoressa Di Chiara ci ha proposto questa esercitazione eravamo molto curiosi di vederne gli effetti. Ci siamo quindi schierati sul campo fino a che, partendo l’esercizio, tutto è risultato più chiaro: i ragazzi e i mister, che erano coinvolti, si sono impegnati al massimo e il risultato finale è stato incredibile. I giocatori collaboravano, si spostavano in base al “peso” degli altri, c’era volontà di risolvere il problema, di rimanere “a galla”. Io mi ricordo che dissi in questo frangente: “Ragazzi, siamo tutti su questa zattera, non permettiamo al mare di affondarci”. E funzionò. Fu una grande soddisfazione davvero, me lo ricorderò sempre come uno degli allenamenti più intensi della mia carriera, non soltanto di mister.
Molto interessante. Un giorno, Covid permettendo, verrò a trovarVi sul campo.
Eccoci alla metodologia di lavoro. Lorenzo, raccontami intanto la Vostra proposta complessiva.
Lorenzo Vivarelli: Io credo che ogni squadra abbia bisogno di un team, non di un unico allenatore. Un team affiatato e in grado di lavorare assieme per un obiettivo comune.
Dopo varie prove, siamo arrivati alla conclusione che i giocatori traggano beneficio da figure diverse che si occupino di loro in ambiti diversi ma sempre condivisi. Il giocatore è un essere umano: ha muscoli, che sviluppano tecnica, che a sua volta deve essere orchestrata nella squadra e nei compagni, ha una consapevolezza di sé, obbiettivi personali che spesso concordano con quelli della squadra, ha componenti cognitive (attenzione, reattività, scelta), ma anche componenti emotive (ansia, angoscia) che lo portano a giocare magari meglio in alcune frazioni della partita e a trovarsi più in difficoltà in altri momenti, o addirittura parti del campo.
Ecco, la nostra metodologia è proprio questa; il giocatore Y, innanzitutto chi è?
In una fase preliminare, il preparatore atletico potrebbe riferirci che è un giocatore forte nella parte inferiore del corpo; l’allenatore potrebbe notare che ha un particolare talento per il marcamento; il secondo allenatore che è un ragazzo che è stato abituato a prediligere un certo lavoro fisico “pesante”; la psicologa che dà il meglio non all’inizio dell’incontro, ma dopo il trentesimo.
Ecco allora che Y, probabilmente, sarà un giocatore con una predilezione per l’aspetto difensivo, che si sentirà meglio, o meglio allenato, dopo un lavoro fisicamente impegnativo e che fino a oggi ha dato il meglio di sé nel secondo tempo, rischiando molto soprattutto nelle prime frazioni di ogni gara (sia a livello tecnico che mentale).
Dopo questa analisi svolta da tutto lo staff, si passa al lavoro vero e proprio su Y: si avvia un percorso minuzioso per cercare di far sì che le caratteristiche di Y possano essere messe a disposizione della squadra e del gruppo, in modo proprio da renderlo sempre più autoefficace e quindi contento: parliamo delle sue attitudini pregresse, lo inseriamo nel contesto squadra, lo alleniamo per quelli che sono i suoi reali bisogni: lo rendiamo felice.
E un giocatore soddisfatto di sé è l’obiettivo del team perché questa sensazione lo rende performante e sviluppa una forte tecnica e una forte tattica funzionale.
Quindi lavorate anche sul singolo, ex novo, interfacciandoVi poi, in un secondo momento, sulle relazioni e sulle interazioni nel gioco. Prendo un attimo spunto da questa Tua risposta, per chiederTi di parlarmi di un Tuo interessante articolo sui “calciatori pensanti”, perché credo che sia attinente alla Vs. idea di lavoro, e un po’ anche perché si riflette nella mia attività di scout. È solo una finzione semantica?
Lorenzo Vivarelli: Direi che non esiste il contrario. Ogni giocatore in campo pensa. La domanda interessante è: a che cosa pensa? E a seguire, è cosciente di ciò che pensa?
Troppo facile fare affidamento su “alleniamoli in modo che non pensino, ma facciano bene”. Eh, grazie. Sarebbe indubbiamente bellissimo, ma come ci arriviamo?
Forse la chiave sta nel renderli sicuri delle loro capacità tecniche e anche personologiche in modo che la loro mente sia scevra da indecisioni nel momento della scelta dell’azione.
Elena Di Chiara: Dipende molto da cosa intendi per giocatore pensante. Ovviamente non si può non pensare. Quindi per definizione il giocatore è pensante. Forse si confonde il pensare con l’essere creativi, con l’essere liberi di esprimere scelte al di fuori di ruoli e canoni di gioco.
Qui è interessante parlare proprio dello scouting. Come riconoscere un giocatore che di per sé sarebbe un talento, ma che viene rinchiuso, coibentato e irrigidito da un gioco imposto (si parla sempre in buona fede, ovviamente) da terzi? La capacità di cogliere la creatività di un giocatore non è scontata. Di contro si può scegliere di prediligere un “buon soldato”, un giocatore che esegue alla lettera le direzioni del mister. A mio avviso però è un rischio. Voglio dire, magari gli riesce bene con quel mister, perché condividono un vocabolario e delle idee, ma quale sarebbe il suo rendimento con un allenatore diverso? Ecco, quindi forse, l’abilità di un talent scout sta nell’abbinare il giocatore al mister.
Lorenzo Rossi: Io credo che i giocatori pensino eccome. È importante mandarli in campo senza pensieri che possano essere disturbanti, ma concentrati esclusivamente su quello che sanno fare e sicuri di saperlo fare bene.
Dott.ssa Di Chiara, ritengo abbia colto un piccolo (ma significativo) frammento dell’abilità di uno scout, che in determinate circostanze – tenuto conto del ‘target’ richiesto dal club – dovrà essere in grado di scartare giocatori che palesano limiti “militari”, come li definisco io.
Naturalmente, non sarà sempre così, perché appunto dipende cosa cerca la società.
Spostiamoci sull’allenare il giocatore scegliente. Senza dubbio avrete letto l’articolo di Claudio Albertini, pubblicato sul sito della FIGC. Egli scrive ad un certo punto: “Pensare i movimenti durante la loro esecuzione è dunque un’attività controproducente, da evitare. Il cervello dell’atleta deve essere allenato in modo che l’attenzione cosciente non si focalizzi sui gesti da effettuare”.
Lorenzo Vivarelli: Non sono sicuro di aver capito bene e in realtà penso di non essere abbastanza preparato sull’argomento. Dico solo che se con “attenzione cosciente” viene inteso un gesto “interiorizzato”, quindi forse ISTINTIVO, allora si, concordo. Nel senso che la scelta di un calciatore può essere istintiva, forse non c’è tempo in campo per metterla a fuoco, ma poi deve per forza essere elaborata in un movimento consapevole, cosciente e voluto.
A senso ti dico che non so se mi piacerebbe allenare giocatori che non sono consci di quello che stanno facendo. Preferisco sicuramente giocatori che sono sufficientemente sicuri di se stessi, della loro autoefficacia e con un’autostima sufficientemente alta da non porsi mille interrogativi prima di prendere una decisione.
Lorenzo Rossi: io mi concentro sul concetto di scelta. Ne abbiamo parlato tanto con lo staff; il nodo è nella velocità della scelta; si escludono le possibilità sicuramente non adatte molto velocemente e quindi restano da vagliare alcune opzioni. Abbiamo concluso che la sicurezza e l’autoefficacia percepita da un giocatore riducono i tempi di scelta del gesto.
Elena Di Chiara: Spesso i giocatori vanno con il pilota automatico è vero. Capita in giocatori di ogni ordine e grado. Tuttavia il fatto che accada non significa che sia la situazione migliore e più performante per un atleta.
La consapevolezza di ciò che stiamo facendo nel momento presente, ammettendo che la scelta sia già fatta, è una skill in più, una abilità fondamentale per un giocatore. Nella mia esperienza mi sono trovata una volta a discutere con un giocatore professionista di basket di quella che lui chiamava “la roba del buddismo zen”. Concentrando tutta la propria attenzione sul momento presente, si trovò in una situazione particolare: mi descrisse la sensazione come quella di “vedere a rallentatore” il gioco, e essere completamente concentrato sul gesto da fare. Ricordava ogni singolo movimento, ogni azione, addirittura ogni sensazione fisica di contatto col pallone o con il pavimento. Mi è capitato anche con i calciatori e con i pallavolisti. Quindi devo dissentire con Claudio Albertini. Il fatto che molti dei giocatori non siano consapevoli di quello che stanno facendo o non pensino a quello che stanno facendo non è da incoraggiare, ma anzi. Invogliarli a sperimentare quella sensazione di rallentamento del contesto (ovviamente è solo un sensazione, il gioco nella realtà è velocissimo) li porta a una precisione tecnica senza precedenti.
Dr.ssa Di Chiara, ha tirato fuori un argomento che mi ha un attimo bloccato e sul quale vorrei dei chiarimenti. Quando parla di sperimentare “quella sensazione di rallentamento del contesto”, intende chiedere al giocatore di ricercare dentro di sé percezioni anche sensoriali, magari due insieme (immagine visiva, o pre-visiva, sensazione fisica, successiva giocata). Scusi l’audacia, atteso che non ho competenze scientifiche, ma Lei crede sia possibile applicare al mondo del calcio (o comunque dello sport in generale) il fenomeno della “sinestesia”, magari in senso più atecnico?
Elena Di Chiara: più che sinestesia, parlerei di consapevolezza. La sinestesia è una caratteristica che se adeguatamente utilizzata da un giocatore può permettergli di riconoscere in maniera più rapida alcune situazioni già esperite e aiutarlo nella velocità di scelta di cui parliamo.
Quando invece io, o meglio i miei giocatori, parlano di rallentamento, fanno riferimento a una sensazione in cui è come se sapessero già cosa sta per succedere. Possono quindi concentrarsi su ciò che devono fare e farlo al meglio. Hanno capito, per esempio, che un avversario sta per spostarsi a destra e la loro mente è già qualche millesimo di secondo avanti. Si sentono quindi più veloci dell’avversario, in vantaggio e in effetti lo sono! Mentre il secondo avversario prende una decisione, il “nostro” giocatore l’ha già presa, mettendo in atto quel famoso “anticipo” di cui sentiamo tanto parlare i cronisti sportivi.
Questa peculiarità che poco sopra ho definito “pre-visiva” mi incuriosisce molto, e credo che la approfondirò in altra sede, magari con il Suo aiuto.
Parliamo un po’ di calcio giocato giovanile: mister Francesco D’Arrigo sostiene che la mancanza di talenti è anche frutto di “metodologie di lavoro sbagliate. Fin dalle scuole calcio, si comincia a separare il lavoro in parti atletiche, tecniche e poi tattiche, prediligendo i giocatori precoci nello sviluppo, senza avere la pazienza di coltivare i ragazzi” (intervista su www.calcioflashponente.it del 12.1.2020).
Lorenzo Vivarelli: È una grande verità. E penso che questo concetto sia stato già ampiamente dibattuto negli ultimi anni. Il problema poi diventa l’applicazione in campo di questi buoni propositi, e allora il discorso cambia. Perché nelle categorie giovanili esiste il risultato, perché esistono le aspettative dei ragazzi e perché perdere non piace neanche a 1 anno.
Voglio dire: facciamoli giocare, ma non stiamo neanche troppo dietro al divertimento per il divertimento, perché abbiamo sbagliato completamente l’approccio. È inutile proporre a un gruppo di pulcini o di piccoli amici esercitazioni che scimmiottano i grandi. È dannoso fingere che nel mezzo di una seduta il protagonista sia il gioco, quando invece si sta mascherando dietro ad aspetti atletici. La soluzione è la pratica di campo. Il resto sono giuste osservazioni che tracciano un percorso difficile da intraprendere se non mettendo in discussione se stessi e avvicinandosi a ciò che chiedono i ragazzi, che talvolta non coincide con le nostre aspettative.
Lorenzo Rossi: Io non sono altissimo. Spesso sono stato messo da parte proprio per questo. Il mio compagno di banco e amico era un ragazzone alto, grande e grosso. Quando si arrivava all’allenamento la frase che si sentiva dire era sempre quella: tu in porta.
Al campetto o in strada, poteva giocare da attaccante, ruolo che prediligeva ed era un fenomeno. Ma il fisico lo ha sempre relegato tra i pali. Un vero peccato.
Creatività ed autonomia: ne approfitto per segnalare un tracciante di Dani Olmo e la filosofia di Nagelsmann, in una chiacchierata recentissima su El Pais, del 10.8.2020, che trovate qui (www.elpais.com/deportes/2020-08-10): “Giochiamo con l’ordine nel disordine. Siamo liberi di cambiare posizione, di lasciare le nostre aree, trovare lo spazio libero e collocarvi lì, ma sempre con una certa automazione che deve essere rispettata. L’allenatore ci dà una certa libertà di occupare gli spazi, ma ci dà anche soluzioni quando non riusciamo a trovare risposte, automatismi che ci aiutano a sviluppare il nostro calcio. Formiamo molte cose. Non voglio dare indizi all’Atlético. Si tratta di rompere le linee di pressione. Tutto dipende dalle qualità dei giocatori e dalla posizione della palla”.
Questa è una solida via di mezzo.
Lorenzo Vivarelli: Il giocatore deve pensare per spazi, non per posizioni. Attacco, difendo, occupo e lascio uno spazio è diverso da dire mi colloco in campo in quel posto perché è ciò che mi hanno insegnato a fare, o peggio ancora ciò che si deve fare.
I ragazzi ricevono stimoli nella scelta dell’attacco dello spazio libero e può succedere che al termine di un’azione o di un’intera fase di gioco io chieda ai giocatori “Per caso vi siete cambiati di posto?” Spesso la risposta è “si mister” o meglio ancora “non lo so mister”. Perché giocare è occupare spazi per attaccare o difendere. Questa è l’unica strategia che trovo valida per affrontare al meglio qualsiasi avversario si trovi in campo e dentro noi stessi.
Prima avete introdotto l’argomento del risultato, e manco a dirlo è un altro mio cruccio. Si può allora dire che uno dei problemi del nostro calcio è il risultatismo? Marcelo Bielsa, ad esempio, sostiene che “dovremmo chiarire alla maggioranza delle persone che il successo è l’eccezione, che gli esseri umani solo a volte trionfano. Il successo è deformante: rilassa, inganna, ci rende peggiori, ci aiuta ad innamorarci eccessivamente di noi stessi. Al contrario, l’insuccesso è formativo: ci rende stabili, ci avvicina alle nostre convinzioni, ci fa ritornare ad essere coerenti. Sia chiaro che competiamo per vincere, ed io faccio questo lavoro perché voglio vincere quando competo. Ma se non distinguessi ciò che è realmente formativo da quello che è secondario, commetterei un errore enorme”.
Lorenzo Vivarelli: L’obiettivo primario è segnare almeno un goal in più della squadra che affrontiamo.
Tuttavia per fare questo dobbiamo IMPARARE: un buon allenatore deve essere in grado di bilanciare le emozioni del proprio gruppo alla luce dei risultati.
Elena Di Chiara: Forse è anche una questione di motivazione, mister. Vincere sempre o perdere sempre tendono a far calare la motivazione sia dei giocatori che del gruppo.
Lorenzo Vivarelli: Esatto; farsi trasportare dai risultati, senza riuscire a porre obiettivi indipendenti al gruppo porta proprio a un calo motivazionale, quindi a una deflessione dell’umore sia dei singoli che del gruppo.
Elena Di Chiara: Il lavoro quindi è quello di tenere alta l’attenzione e la motivazione del gruppo, facendoli parlare, sfogare e trovando chiavi comunicative nel gruppo così da “resettare” le emozioni e preparare la squadra a un nuovo allenamento.
Lorenzo Rossi: Li, di solito intervengo io. E’ il mio campo. Avvicinare i ragazzi, farli parlare e sfogare, trovare insieme a loro la strada giusta per digerire i risultati, positivi o negativi e fare un esame di realtà; così si evitano gli “innamoramenti di se stessi” o la sfiducia nei propri mezzi.
Però guardiamo questo argomento da una prospettiva diversa, e scusate se torno allo scouting, ma io credo che il discorso del risultato rifletta in maniera molto pregnante il modello a cui siamo abituati, quantomeno in Italia, perché c’è una chiara e netta preferenza verso ragazzi già formati fisicamente, a discapito del talento tecnico, della comprensione, delle letture.
A tal riguardo, però, ho ascoltato un recente webinar di Maurizio Viscidi dove parla dell’attuale “stato” del calcio giovanile italiano: secondo lui in Italia i ragazzi sono troppo bravi tatticamente, mentre in Europa ci si sta spostando verso “etnie” fisiche dove l’atletismo è dominante (cita la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra ed il Portogallo). E dunque, è vero che da noi i ragazzi non giocano più in strada, tanto che ormai stiamo accettando di produrre “ragazzi condominiali”, ma allora il mancato atletismo, in tal contesto, diventa un alibi. O un attenuante.
Elena Di Chiara: Credo che ancora una volta sia una questione di guardare l’atleta nella sua globalità. Una base fisica ci può volere e può essere aiutante, ma talvolta può risultare di ostacolo. Prendiamo la prestanza fisica, la massa muscolare o l’altezza. Certo sono caratteristiche notabili e che saltano immediatamente all’occhio, tuttavia possono essere performanti solo se l’atleta che stiamo osservando si è sviluppato in maniera armonica e ha imparato a sfruttare le proprie doti fisiche mettendole a disposizione di un contesto.
Quindi per rispondere alla tua domanda, no. Preferisco un giocatore non ancora formato fisicamente e che possa formare il proprio fisico in base alla richiesta di quello che è il campo. Adattare quindi l’andamento della propria fisicità al tipo di talento che ha (inutile creare massa a un giocatore il cui punto di forza è la velocità, inutile creare agilità nelle gambe a un giocatore che – baricentro basso- fa dell’equilibrio e della solidità il proprio punto di forza.)
Permettimi di concludere con una battuta, dai. Se Pirlo fosse stato valutato in base al fisico, avrebbero sicuramente tutti detto: meglio che si dia all’ippica, con quelle gambe lì.
Lorenzo Vivarelli: Un giocatore può risultare molto formato fisicamente in un certo momento della vita, soprattutto nell’età evolutiva. Ho conosciuto giocatori che erano stati i più forti fisicamente nell’età degli esordienti e dei giovanissimi. Solitamente li avevano sparati in avanti a fare gli attaccanti. Un bel pallone lungo e 30 reti in un anno, con tanto di vittoria di campionati spesso provinciali, post dei genitori entusiasti su facebook e commenti del tipo “Fenomeno!” degli amici. Fin qui tutto bene. Poi il problema te lo ritrovi dopo, quando da “adulti” manifestano una scarsa attitudine verso la risoluzione di problemi “di campo”, quando la realtà ha preso il posto della fantasia e da campioni di provincia si è passati al dimenticatoio. L’aspetto fisico è sicuramente un vantaggio in molti profili, ma non può essere la base per un modello di scouting. O comunque non può essere il primo dei termini utilizzati nella ricerca del talento; il talento infatti credo che si percepisca non nell’utilizzo opportunistico del fisico, ma nell’uso funzionale del corpo in base a un obiettivo. Fosse per me, metterei un giocatore forte fisicamente in tutti i ruoli, proverei continuamente a metterlo in difficoltà in allenamento affinché prenda consapevolezza del suo corpo. Ma ripeto, l’aspetto fisico deve essere considerato sempre e soltanto dopo un approfondimento tecnico e dopo aver bene pesato le competenze di lettura del gioco, l’efficacia delle giocate in base al contesto, la visualizzazione del gioco stesso.
Non esistono cose facili o difficili: esistono cose che sai fare e non sai fare. È da questo concetto banalissimo che capiamo il livello di un formatore? (vedi le partite postpandemiche, dove alcuni allenatori professionisti guidano i giocatori come un GPS).
Lorenzo Vivarelli: No, qua devo dissentire. Non esistono cose facili o cose difficili: esistono cose che sai fare e cose che non sai ANCORA fare. Noi siamo qua per questo. Per insegnarvi ciò che ancora non sapete fare. E anche per imparare ciò che ANCORA noi non sappiamo fare. Credo questo significhi arricchimento, anche del vocabolario “calcio”.
Elena Di Chiara: Dissento anche io. In realtà la differenza che io personalmente ho trovato tra le partite pre e post pandemiche è la presenza del pubblico. Il pubblico, con il suo tifo, copriva in larga parte la voce del mister. Anche prima gli allenatori guidavano i giocatori come gps, come dici tu, come scacchi come dico io. Solo che ora si sente la loro voce molto più distintamente rispetto a prima. E la sentono meglio anche i giocatori. I risultati di questo? Credo siano sotto gli occhi di tutti le prestazioni postpandemiche delle maggiori squadre di calcio.
Lorenzo Rossi: Da giocatore, trovavo sollievo nella presenza del pubblico che coprisse, almeno in parte le direzioni di un mister. Ero un po’ più libero e meno condizionato nelle scelte da fare. Il giudizio comunque lo sentivo, il pubblico si fa sentire. Però almeno l’errore era mio, non di un altro.
Non sono soddisfatto della risposta. È vero, errore mio, che ho parlato di “formatore”, mentre ho fatto un esempio di calcio professionistico, però la domanda riguarda lo specifico effetto – se vogliamo psicologico – nella testa dei ragazzi a sentire tutte quelle urla degli allenatori. Le direttive militari impartite nel match, significano che i giocatori non prendono decisioni autonome, ma sulla base del comandante che a bordo campo disegna verbalmente le tracce e le sequenze.
Il corollario è la mancanza di fiducia degli allenatori verso i propri ragazzi?
Lorenzo Vivarelli: C’è una oggettiva difficoltà a modificare un modello conosciuto. Urlo? Sono virile e rispettabile. Do indicazioni precise e manovro i miei giocatori come avessi un joystick? Sto “impartendo” il mio gioco. Il mister si comporta come un generale che guida un esercito e lo “disciplina”. L’associazione calcio-caserma, in Italia e non solo, è partita da lontano, da quando al gioco si sono sostituiti i percorsi militari faticosissimi, le ripetute in salita, i gradoni della tribuna: da quando, contestualmente, sono diventate pane quotidiano le espressioni “cattiveria”, “usare gli attributi”, “mangiare gli avversari”. Sono tutti modi di dire che palesano un certo gergo machista e maschilista purtroppo mai superato, soprattutto nel nostro Paese. In quest’ottica anche il guidare i giocatori si inserisce in una visione virile e autoritaria del calcio: io ti dico che cosa fare perché io, uomo forte, ti conduco alla conquista della vittoria. Bene, ora mi rivolgo a tutti i generali. Attenti, perché una volta vinto il torneo di provincia e il campionato (la Champions no, quella in quel modo non la vinci), quando vi girerete, dietro la collina non troverete più nessuno. Un giocatore abituato a subire ordini impartiti dal generale di turno si aspetta sempre un rimprovero una volta “sbagliato” un passaggio, una lettura di gioco, un controllo di palla ecc. L’errore, in questo caso, è sempre l’errore rispetto al gioco del mister, mai rispetto a una scelta non funzionale. Sono moltissimi, troppi, quelli che ancora si comportano così con i loro giocatori.
Elena Di Chiara: c’è una mancanza di fiducia degli allenatori verso se stessi. Se sono consapevole e sicuro di come ho allenato, del lavoro che ho svolto fino qui per preparare la squadra alla partita, sono anche sicuro di dover intervenire poco, al limite incoraggiare o – se proprio le cose si dovessero mettere male – aiutare gli atleti a capire quale sia il problema. Ma se hai lavorato bene in allenamento, se hai creato un gruppo in grado di avere fiducia nei mezzi che gli hai donato durante la settimana, un gruppo che (arriva un termine psicoanalitico) ha INTERIORIZZATO il mister, non avrai bisogno di dirigerli come scacchi.
Aggiungo un’immagine che mi è venuta, ma non so se sia possibile inserirla. Prendila come un racconto; ultima partita di playoff, parliamo di volley. Un anno straordinario, una squadra magnifica, collaborante, con la quale il lavoro era stato tanto e faticoso. Partita scudetto.
Arrivo al palazzetto, incontro i ragazzi nello spogliatoio e cerco, come al solito, di parlare un po’ con loro, di far uscire la tensione in modo da mandarli in campo leggeri. Noto sorrisetti, ciondolamenti di testa, scambi di sguardi. L’alzatore e capitano a un certo punto alza una mano e mi interrompe: Doc, sappiamo tutto, dice. Hai fatto tutto. Siamo tutti pronti. Lo sappiamo fare, lo abbiamo già fatto e abbiamo anche deciso che, invece che a bordo campo dove ci puoi parlare, tu oggi ti siedi in panchina (dove da regolamento devi tacere) e ti godi lo spettacolo.
Ecco, avevo vinto indipendentemente dal risultato della partita.
Questa è la vittoria che intendo io, ed è questo il risultato a cui i club dovrebbero aspirare nella formazione dei ragazzi del settore giovanile, anche se il Suo esempio riguardava lo sport professionistico.
Ancora Flemming Pedersen, in un altro passaggio, chiarisce un aspetto secondo me fondamentale, e traduco per semplificare: “molti club costruiscono il proprio stile di gioco partendo dal come difendersi. Noi crediamo sia sbagliato, perché sappiamo che l’85% dei gol nascono nella zona di pericolo. Sappiamo anche che lo sviluppo del gioco si ha quando ti avvicini di più all’obiettivo, creando occasioni sempre più aperte. Allora la domanda è: cosa dobbiamo fare per creare queste possibilità? Dove sono le nostre aree di assistenza e come possiamo entrarci?”. Insomma, riducono la complessità del gioco selezionando le situazioni più importanti da allenare, rendendo il gioco più semplice per i ragazzi.
Diminuire le opzioni in modo che i giocatori possano prendere decisioni migliori e più rapide. E’ un po’ la metafora che fa Flemming su uno studio in U.S.A. sulla vendita del ketchup.
Cosa ne pensate?
Lorenzo Vivarelli: L’esempio portato da Flemming è interessante, ma non sono sicuro che sia calzante. Noi dobbiamo fare in modo che i nostri calciatori entrino al supermercato sapendo già quale ketchup vogliono. Anzi, prima ancora dovranno sapere se per la ricetta che stanno cucinando sia meglio il ketchup, la maionese o la salsa BBQ. Mentre si avviano al supermercato dovranno decidere quale marca comprare a seconda sempre della ricetta che hanno in mente di fare. Varcata la soglia, la scelta è fatta, e ci si può concentrare esclusivamente e senza esitazioni sul gesto di afferrare la bottiglia giusta.
Chiaramente nel caso di una azione all’interno della partita, la scelta del “ketchup” avviene in maniera velocissima. L’importante quindi è che il giocatore abbia una certezza nel mettere in atto la SUA scelta.
Lorenzo Rossi: Certezza che ha acquisito in allenamento, provando e riprovando, giocando col pallone e sperimentando ricette che non gli sono piaciute o salse che non erano adatte al piatto o ai commensali.
Saprà quindi subito che se ha davanti un vegano, sarà inutile proporgli la BBQ e non vaglierà nemmeno quella decisione, conoscendo già cosa potrebbe succedere altrimenti.
Consolidare le certezze, le conoscenze e le competenze degli atleti che stai allenando è proprio il compito di uno staff in gamba!
Per cui, dobbiamo (scusate, dovete) allenare i ragazzi insegnando loro a percepire il gioco, decodificarlo? Con quali strumenti?
Lorenzo Vivarelli: L’allenatore, durante una partita, è a bordocampo. Durante gli allenamenti di solito si mette in mezzo al gioco, lo hai mai notato? Insomma, per dirla in termini contestuali, durante l’allenamento il suo punto di vista coincide, più o meno, con quello del calciatore. Durante la partita no. Mai. Nessun giocatore si trova nel rettangolo tratteggiato di fronte alla panchina. Allora, come è possibile che il mister possa fornire informazioni sul da farsi, rispetto a un giocatore che ha il punto di vista più vicino al gioco? Quindi si, dobbiamo allenare i giocatori a decodificare il gioco dal loro punto di vista, a essere sicuri delle proprie scelte e delle alternative che hanno. Dobbiamo fidarci ed evitare di rimarcare con la voce scelte che non ci piacciono, per evitare di bloccare il loro libero fluire.
Elena Di Chiara: La regina dell’apprendimento è l’esperienza. Dobbiamo esperire il gioco, provarlo, vedere cosa funziona per noi, ma anche a seconda del contesto in cui giochiamo.
Il calciatore pensante è un calciatore in grado di pre-vedere il gioco, farsene un’idea e trovare una soluzione. Certo, in determinate situazioni può ricevere un suggerimento o un’indicazione dal mister (magari a palla ferma e non mentre si sta muovendo), ma renderlo indipendente è sicuramente la strategia migliore e che rende il gioco dei giocatori.
Parliamo un po’ di sviluppo futuro del calcio giocato: è corretto ricercare una lettura predittiva sui bisogni dei flussi di gioco futuro? Cioè, si può dire che se vogliamo crescere dobbiamo prevedere che tipo di giocatore serve, che stile di gioco serve, tra 2 o 3 oppure 5 anni?
Lorenzo Vivarelli: Siamo sempre lì. Come mister sento il compito di formare calciatori che possano cavarsela oggi tra 2, 3 oppure 5 anni.
Come si fa? Liberandoli una volta per tutte dai dogmi del gioco, aiutandoli a capire l’andamento della partita e donando loro la capacità di adattamento. Ma la stessa cosa devono fare i mister. Inutile forzare un giocatore in un ruolo che evidentemente gli va stretto; molto più utile insegnargli a giocare ogni ruolo, capire dove si sente meglio, “sta più comodo” se vuoi. A questo punto ti accorgi che è il giocatore a fare la partita. Letteralmente. Se, per esempio, sempre il nostro giocatore Y si troverà meglio avanti a destra, farà di tutto per trovarsi lì, al momento opportuno, creando il gioco con il fine di trovarsi proprio in quello spazio. Se la squadra contestualmente lo aiuta e si trova l’armonia e da questa armonia scaturisce un gioco che non solo diverte, ma anche performa (allarga le braccia) hai vinto lo scudetto!
Elena Di Chiara: Il calcio cambia. Di continuo. Sarebbe interessante chiedersi se lo cambiano i calciatori, gli allenatori o il caso. Io credo si tratti di una combinazione di cose. Se i cambiamenti portano successi (un po’ come il concetto di evoluzionismo) allora divengono di uso comune, almeno fino al prossimo cambiamento.
L’importante, secondo me, è evitare in tutti i modi la trappola del “ho sempre fatto così e quindi farò così per sempre”, ma approcciare al calcio con curiosità e apertura verso nuovi orizzonti e scoperte.
Dopo gli allenamenti Vi ponete mai delle domande?
Lorenzo Vivarelli: Almeno mille. E le espongo! E alle mie mille si sommano le mille di ogni elemento dello staff. Io provo a rispondere a quelle degli altri e gli altri alle mie. Insomma per ogni domanda che io mi sono posto, ho almeno tre risposte, che – messe insieme – trovano la soluzione.
Elena Di Chiara: È un lavoro piuttosto lungo; dopo le partite e gli allenamenti cerchiamo assieme di fare un sunto, di capire quali sono gli aspetti da potenziare, sia di quadra che dei singoli; lavoriamo anche sui bilanciamenti stress-recupero. Di solito quella che fa tremila domande sono io, ma i miei colleghi spesso mi rispondono gentilmente.
Lorenzo Rossi: Anche noi, come i giocatori, entriamo in campo per fare un allenamento avendo già in mente quale ketchup prendere. Il lavoro dentro al campo è solo una minima parte, la punta di un iceberg di un lavoro mastodontico e meticoloso che impegna gran parte della giornata.
Qual è il vostro approccio sul “problem solving” (e “decision making”), visti come chiave del processo di apprendimento?
Elena Di Chiara: Il problem solving è un processo il cui scopo è quello di superare ostacoli che ostruiscono il percorso verso la soluzione.
Nel campo educativo, mi sento sicura di affermare che una strategia vincente sia quella di insegnare ad imparare. Imparare non solo dal mister o dal professore, ma anche dalle proprie esperienze. In sostanza, quando si ha un problema, lo si scompone (sempre) in problemi più semplici fino a che non si trova una soluzione.
Su un campo da calcio, ovviamente, non si ha il tempo per attuare questo processo un po’ macchinoso che quindi deve essere velocizzato. In allenamento, invece, si può allenare la capacità di trovare in maniera sempre più rapida strategie di soluzione del problema. Per esempio, inserire più porte, o imporre limiti fisici al campo di gioco costringerà gli atleti ad allenare il cosiddetto “pensiero laterale”. E il pensiero laterale è, come sappiamo, alla base della creatività che a sua volta è alla base del gioco del calcio libero.
Lorenzo Vivarelli: Prendi un campo diviso in tre settori. Crea le condizioni affinché ci si avvicini il più possibile a una situazione “di gara”. Spiega ai ragazzi che ogni settore deve essere occupato sempre da un numero fisso di giocatori ma al tempo stesso che tutti loro devono cambiare settore di gioco a seconda della situazione. In quel momento, mentre giocano, i calciatori si trovano a dover risolvere un numero alto di problemi insieme: qual è la mia posizione in campo? Che cosa stanno facendo i miei compagni? Quale movimento devo compiere per stare nella regola data dal mister per questa esercitazione? Perché la squadra avversaria si comporta in questo modo?
Ecco, io a quel punto mi metto in disparte e li osservo. E vi giuro che se ne vedono delle belle. È il calcio, con tutta la sua imprevedibilità.
Lorenzo Rossi: Con questo staff abbiamo lavorato tanto sul problem solving; a un tratto mi sono accorto che mettevo in atto le strategie apprese sul campo anche fuori, nella vita di tutti i giorni. Scomporre un problema grossi in problemi più piccoli e metterli in ordine di risoluzione per poi affrontarli uno alla volta è stato sicuramente un insegnamento fondamentale. E ripeto, non solo in campo!
E quindi, si arriva alla “scelta” di gioco dei ragazzi: credete sia più importante giudicare il risultato o l’intenzione?
Questa domanda riflette la mia concezione di scouting, quindi vorrei una risposta approfondita.
Lorenzo Vivarelli: Che domanda difficile! Mi viene cosi, di getto da risponderti entrambi! Mi spiego meglio: osservando un atleta, va tenuto conto sia delle sue intenzioni che dei risultati. In effetti, le intenzioni sono importantissime perché ti permettono di capire se un giocatore ha buone capacità di problem solving, coraggio e personalità. Tuttavia un giocatore intelligente è anche un giocatore che sa mettere le proprie capacità a servizio della squadra. Quindi talvolta l’intenzione non viene compresa dalla squadra o non è adatta al contesto.
Se il giocatore per esempio è molto veloce, ma si trova a giocare in una squadra molto lenta, sembrerà fuori ritmo. Viceversa un giocatore lento, con accanto un giocatore molto veloce, non riuscirà a raggiungere in tempo il pallone.
Però a calcio si gioca in 11, quindi probabilmente credo che prediligerei il risultato. Perché nel risultato ci sono le intenzioni bilanciate dal contesto in cui sta giocando e al quale sa adattarsi.
Si, credo che un giocatore debba essere capace di adattarsi al contesto e sfruttarlo per ottenere un risultato.
Attenzione poi, molte delle intenzioni che si vedono in campo, sono poi veramente del giocatore o sono proiezioni di un metodo dell’allenatore?
Elena Di Chiara: Nel calcio è difficile valutare l’intenzione in quanto è sempre mediata dal contesto. Per valutare squisitamente le intenzioni bisognerebbe fargli un esame teorico. Invece credo che sia fondamentale che un giocatore debba riuscire a modulare le proprie intenzioni su quelle della squadra.
Lorenzo Vivarelli: Il contesto situazionale del gioco del calcio è la risposta. Non è possibile giudicare un giocatore in maniera “assoluta”, va sempre tenuto in considerazione se il risultato viene adeguato alla situazione e al contesto. Insomma bisognerebbe capire se il giocatore che stiamo osservando sceglie l’intenzione giusta per ottenere il risultato.
Elena Di Chiara: In pratica nessuno di noi vorrebbe mai essere nei tuoi panni, per fare scouting.
Ma per me non è affatto complicato. Ed in ogni caso, per come la vedo io, il risultato della giocata non assume un grande valore selettivo, nelle mie analisi e, d’altra parte, opero nel settore giovanile dove, quindi, le categorie di riferimento sono indefinite, al cui interno, cioè, entrano in gioco molti aspetti poliedrici, come l’egocentrismo, la coordinazione. Insomma, modalità valutative molto ampie, chiaramente legati all’età. Chiaro che il risultato in sè lo guardo nella successione temporale, ma osservo maggiormente l’intenzione, la decisione, in quel determinato scenario di gioco, o sequenza, che poi vado a scomporre.
Vorrei chiudere con il calcio giovanile federale: manca il talento e l’affermazione è molto generica. Ma vorrei conoscere la Vostra idea al riguardo.
Lorenzo Vivarelli: Il talento in realtà esiste eccome. Il problema è valorizzarlo. Sento parlare di indirizzi comuni per le nazionali giovanili, di lavoro che riguarda una diversa attenzione verso il gioco e sembra che la situazione sia migliorata. In questo senso l’arrivo sulla panchina dell’Italia di Mancini ha creato sicuramente interesse: sono state privilegiate le convocazioni di giocatori giovani a discapito magari di un’esperienza già acquisita ma che ci aveva portato poco lontano con la gestione di Ventura. Mi riferisco alla chiamata di Zaniolo in nazionale maggiore, pescato dallo staff azzurro quando ancora faticava a trovare spazio nella Roma. Poi però se riflettiamo proprio l’esempio di Zaniolo è calzante su come ci si stia muovendo in modo scomposto. Da una parte due cessioni dalla Fiorentina, poi in prestito all’Entella, poi una capatina all’Inter e poi alla Roma, dall’altro la difficoltà di trovare spazio nei club mentre esisteva già un interesse “nazionale” sul giocatore. Sì, perché per il calcio italiano non potrebbe esistere un Mbappé, campione del mondo all’età di 19 anni: noi a quell’età li mandiamo a “farsi le ossa”, gli altri ci vincono i mondiali.
Purtroppo si crea spesso l’equivoco dei giocatori stranieri nei settori giovanili. Leggo di allenatori e addetti ai lavori che pensano che la troppa presenza di stranieri non sia funzionale all’acquisizione di talenti. Io penso il contrario: più l’offerta aumenta, maggiori sono le possibilità. Qui non abbiamo bisogno di un capro espiatorio, ma di mettere in discussione anni e anni di convinzioni scadute ormai alla fine del millennio scorso.
Elena Di Chiara: Anche io credo che il talento esista, in Italia come all’estero. Con la differenza che in Italia il calcio non è solo uno sport, ma anche una passione. Molti adolescenti passano gran parte del loro tempo libero a giocare a parlare e a sognare il calcio. Forse la rigidità nel riconoscerlo e nel valorizzarlo sta penalizzando alcuni di questi talenti. Forse, ad oggi, se non rientri in canoni specifici e incasellati, allora non vieni preso in considerazione come talento. Quindi il ragazzo che vuole fare il calciatore, che davvero lo vuole fare, si trova costretto a forzarsi all’interno di quegli standard, penalizzando però la propria individualità.
Bisognerebbe lasciare liberi i ragazzi di esprimersi in campo, tranquillizzarli nel loro gioco e rafforzarli spingendoli a fare del loro meglio. Allora i talenti potrebbero vedersi.
Forse prima di cercare i talenti tra i giocatori, dovremmo fare una selezione dei mister.
Forse, prima di cercare un giocatore pensante, sarebbe meglio, molto meglio, cercare un Mister Pensante. Ma sono perle rare.
Bum. Non ho altro da aggiungere.