RIFLESSIONI SUL CALCIO GIOVANILE CON GIGI ORLANDINI
A cura di Christian Maraniello
Ho conosciuto Mister Gigi Orlandini a seguito di una diretta facebook “a palla scoperta”, sulla pagina “P & M Coaching”, con oggetto “attività di base, i valori etici prima della vittoria”.
In quel contesto, che Vi invito ad ascoltare con pedante acribia, sono state affrontante alcune tematiche sul settore giovanile globalmente inteso, che invero anche noi abbiamo discusso recentemente con Dino Baggio, Antonio Cabrini e David Di Michele.
Ho pertanto ritenuto opportuno allargare le opinioni, coinvolgendo Gigi (che mi scuserà per questa licenza confidenziale) che, dico la verità, mi ha colpito non solo per le sue idee, ma anche per la passione che mette in quello che fa.
Peraltro, durante la nostra telefonata mi ha espresso un concetto che meriterebbe di stare nei titoli di ogni seduta formativa: “per crescere e migliorare devi avere le stesse curiosità di un bambino”.
Ora, al di là di quello che penso io sulla metodologia da usare nei settori giovanili, a cominciare dal concetto di “gioco formativo” (spiegato benissimo da Filippo Galli), prendete qualche minuto e leggete questo colloquio, che mi auguro ricco di spunti per ognuno di Voi.
Caro Gigi, grazie della Tua disponibilità.
Partirei con una domanda generale, che però mi serve per catapultarTi nel nucleo principale di questa chiacchierata. Che cosa rappresenta per Te il calcio?
Grazie a Te. Dunque, il calcio ha rappresentato tanto nella mia vita, perché oltre ad essere una grandissima passione, è uno sport che ho sempre affrontato con divertimento. Mi hanno dato in mano una palla e, come tanti bambini, ho iniziato a giocare.
Se devo trovare una grande differenza rispetto alla nostra generazione, ti dico che, secondo me, oggi i bambini sono troppo sotto pressione, e la colpa in massima parte ricade sui genitori. Era molto meglio prima, ai nostri tempi.
Sul discorso dei genitori nel parliamo dopo. Quando hai smesso con il calcio professionistico hai allenato anche nel settore giovanile. Puoi raccontarmi l’esperienza umana in sé, ma anche i problemi che hai dovuto affrontare.
Diciamo che ho allenato nei settori giovanili, sia nazionali e sia regionali, e devo dire che, purtroppo, non ho sempre trovato delle buone organizzazioni, anzi il più delle volte notavo anche molta improvvisazione.
Però il rapporto che si instaura con i ragazzi, dal punto vista umano, è incredibile, e questo non lo toglie nessuno, perché ciò che ti danno loro non te lo danno i grandi, perché i bambini, ma anche i ragazzi pre adolescenti giocano un calcio pulito e sano, e con valori che esulano dalle vittorie o dai trofei.
Il rapporto che si instaura, cioè, non è propriamente allenatore-giocatore, ma a 360 gradi, e quindi è coinvolgente.
Da scout frequento il substrato più profondo del calcio giovanile, e mi sono avvicinato, toccandole con mano, a problematiche molto evidenti.
Discutendo di questi argomenti anche con ex calciatori di prestigio, tra cui Dino Baggio, Cabrini, Di Michele, sono uscite riflessioni crude sullo stato attuale. Comincerei da un aspetto che a me interessa in particolar modo, ossia l’etica ed il rispetto.
David Di Michele, che cito spesso sull’argomento, mi ha detto: “Sono convinto che sia molto più importante parlare con i ragazzi di etica e di rispetto, piuttosto che di calcio giocato, di tattica e di tecnica. I ragazzi, come sottolineate spesso, stanno perdendo i valori dello sport, e le colpe sono da attribuirsi un po’ a tutti i livelli: dagli stessi ragazzi, sino ad arrivare ai genitori, al sistema calcio in generale, e poi i social media”.
Sono assolutamente d’accordo con Di Michele.
Diciamo che l’etica ed il rispetto devono essere considerate come delle porte che ti aprono il resto. Il calcio deve partire da questi valori, e quindi noi formatori non abbiamo il dovere solo di insegnare il gesto tecnico o comunque i fondamentali, o i principi di gioco, ma il dovere morale di educare allo sport ed al rispetto delle regole, a tutti i livelli, perché fondamentali in un contesto sociale.
Bisogna pensare che pochissimi bambini che giocano a calcio diventeranno calciatori professionisti, mentre tutti diventeranno uomini.
Per cui, per quanto mi riguarda, le prime cose che insegno ai bambini sono proprio quelle per cui Voi vi state battendo da tempo.
Da uomo di calcio e di sport in generale, trovi che i giovani calciatori di oggi siano cambiati rispetto alla tua epoca, anche come approccio?
Assolutamente si.
Come ricorderai, noi avevamo timore anche delle maestre, figurarsi se non avevamo un approccio diverso. Anche nei confronti degli stessi genitori, perché sapevamo che dovevamo avere rispetto sempre.
Devo dire che, esulando un po’ dal discorso calcio, è cambiato anche il rapporto genitore-figlio. Oggi si tende più a vedere il padre come un amico, dando troppa confidenza, che per carità va anche bene, ma secondo me ci vuole una certa “distanza”, ed autorevolezza. Poi chiaro, è anche colpa nostra.
Detto questo, comunque, quando un bambino non rispetta le regole e manca di rispetto a me o ai compagni, non lo porto a giocare la partita, anche se ovviamente spiego il problema ai genitori ed allo stesso bimbo. Mi è capitato proprio quest’anno un episodio del genere, ed i genitori hanno capito e sono stati d’accordo.
Sto sensibilizzando moltissimo i talenti che intervisto (tutti nazionali giovanili) anche su questi valori fondanti, e devo dire che molti di essi dimostrano sensibilità al riguardo. Pensi che questa piccola voce possa aiutare a far crescere questi valori, partendo proprio dai giovani, oppure credi sia una chimera?
Penso sia molto importante la loro testimonianza, perché sai, finchè ne parlano i Presidenti od i dirigenti non si dà la giusta importanza, perché loro sono più autorevoli e le loro parole possono essere travisate, e viste come imposizioni.
Ed invece io sono d’accordo con il Vostro metodo, e quindi penso che coinvolgendoli si aiuta anche a farli riflettere, ed inoltre si contribuisce alla crescita complessiva.
Penso anche che noi formatori abbiamo il dovere di raccontare ai ragazzi, nello spogliatoio, il nostro vissuto, così che possano imparare a non commettere errori. Credo molto nell’esempio.
Penso sia un approccio interessante, e devo dire che anche Mister Di Michele mi ha raccontato di utilizzare questa metodica con i suoi ragazzi.
Si certo, ma perché Di Michele ci è passato.
Esatto. Voglio portarTi ora su una dimensione diversa: il 24 maggio 2019 in Vaticano si è tenuto un evento dal titolo “Il calcio che amiamo”, e Tra i tanti passaggi più emozionanti del Pontefice, vi sono questi: “La felicità è dare un pallone a un bambino per giocare (…), dietro a una palla che rotola c’è quasi sempre un ragazzo con i suoi sogni e le sue aspirazioni (…). Spesso si sente dire anche che il calcio non è più un gioco: purtroppo assistiamo, anche nel calcio giovanile, a fenomeni che macchiano la sua bellezza. Ad esempio, si vedono certi genitori che si trasformano in tifosi-ultras. Il calcio è un gioco, e tale deve rimanere (…). Si rincorre un sogno, senza però diventare per forza un campione. È un diritto non diventare un campione”. Ecco, riflettendo un attimo davanti a queste parole significative, credi che il calcio stia davvero perdendo la magìa che aveva nella nostra infanzia?
Sono bellissime parole. Guarda alla tua domanda rispondo con un perentorio si. E questo perché ai bambini, ma soprattutto ai ragazzi (diciamo anche dai pre-adolescenti) viene data dai genitori troppa pressione, come abbiamo detto prima. Anzi parlerei proprio di responsabilità. Cioè i genitori li fanno sentire dei falliti se non riescono a raggiungere l’obiettivo che loro si sono prefissati. E’ proprio un errore concettuale, perché i genitori devono preoccuparsi dell’educazione, ed indirizzare i figli nello sport, poi dopo lo accompagni nel suo percorso, per crescere.
Questo breve tracciante del Papa introduce un argomento che, secondo me Ti interessa particolarmente e che coinvolge i genitori. Parliamo dopo della Tua scuola calcio dal punto di vista metodologico, però Ti voglio fare un esempio per capire cosa pensi dell’argomento in generale.
L’anno scorso Giovanni Galli, nella sua Scuola Calcio ad Affrico, all’indomani di una rissa che ha visto coinvolti i genitori durante una partita della categoria esordienti, li ha obbligati ad “allenamenti pedagogici”, ossia riunioni rieducative con psicologi, dirigenti sportivi e pedagogisti, su come ci si comporta nel mondo del calcio, anche sugli spalti. Cosa pensi della proposta in sé, ed in generale del comportamento dei genitori nel mondo del calcio.
Io penso questo, al di là dell’episodio singolo, sicuramente deprecabile: quando inizi un percorso, come ad esempio il mio con la Scuola Calcio, non puoi pensare di staccare i bambini dai genitori, più che altro perché sono ancora piccoli e quindi devi coinvolgerli nel tuo progetto.
Ovviamente i genitori devono sposare la nostra filosofia, e questo aspetto lo trovo fondamentale, così come trovo importante che essi, in partita o in allenamento, stiano al loro posto, senza telecomandare i bambini.
I genitori dovrebbero solo incitare la squadra, e chiaramente i propri figli.
Certo, con Galli mi trovo d’accordo quando tra le righe ci fa capire che anche i genitori vanno allenati.
L’argomento mi consente poi di spostarmi su una tematica che, devo dirlo chiaramente, a mio parere è strettamente collegato, e che riguarda il fatto che i bambini non giocano più in strada, o meglio che non iniziano più da quella che secondo me resta, ancora oggi, la vera palestra naturale del calcio.
Cambiano i tempi, ma per quelli della nostra generazione il pallone era un modo di aggregazione e di amicizia.
Noi quando vedevamo un pallone dovevamo fare una partita per forza, quasi spinti da una chimica incandescente, mentre invece oggi preferiscono una partita alla playstation o disintegrarsi davanti ai social.
Credi che anche l’avvento del mondo tecnologico stia influendo sulla mancanza di talento delle ultime generazioni? E se si, cosa pensi si possa fare?
Si. La tecnologia è un danno per questa generazione. C’è poco da discutere.
Ovviamente anche in tal caso serve un progetto educativo ad ampio respiro, a cominciare dai genitori.
Scusa se ti interrompo. Tutto vero, ma spostiamo lo sguardo proprio sul tempo dedicato al gioco del calcio (o di qualsiasi sport): noi, terminati i compiti, uscivamo di casa e fino alle 8 di sera giocavamo a pallone, ovunque ci capitasse. I ragazzi oggi restano a casa a giocare davanti alla TV e questo influisce poi sulla crescita. Se ne parla sempre di più, ed anche recentemente il Prof. Francesco D’Arrigo ha posto il problema.
Non c’è alcun dubbio. E’ anche vero che prima c’erano gli oratori e le scuole calcio non esistevano, ma che la strada fosse la prima palestra del calcio sono d’accordo.
Poi hai comunque sollevato un problema che è ancora più importante, che riguarda il tempo dedicato al gioco. Anche noi,nella nostra scuola calcio, dobbiamo fare solo 3 ore a settimana con i più piccoli.
Pochissimo.
Parliamo un po’ di calcio giocato e di metodologia: mister Francesco D’Arrigo sostiene che la mancanza di talenti è anche frutto di “metodologie di lavoro sbagliate, fin dalle scuole calcio, si comincia a separare il lavoro in parti atletiche, tecniche e poi tattiche, prediligendo i giocatori precoci nello sviluppo, senza avere la pazienza di coltivare i ragazzi” (intervista su www.calcioflashponente.it del 12.1.2020).
Al di là dei tuoi principi cardine della Tua Scuola Calcio, di cui poi parleremo a breve, cosa pensi di questo breve tracciante del Mister?
Si è così. E’ la verità.
Voglio dirti una cosa e parlo in generale, anche se ci sono scuole calcio che applicano principi diversi: la maggior parte degli allenatori (chiamiamoli anche istruttori) vogliono portare il calcio dei grandi nei piccoli. Vedo ad esempio in alcune scuole calcio che molti allenatori fanno “lavorare” a secco i bambini. Ed è un errore, anche se ognuno ha le sue idee, ci mancherebbe, ma in questo caso significa mancanza di competenza e conoscenza.
Serve formazione seria, e non ho problemi a dire che quando vedo questi errori grossolani significa che chi gestisce le scuole calcio lo fa solo per incamerare quote e arrotondare lo stipendio, senza dare ai bambini quelle conoscenze necessarie per farli crescere gradualmente.
Ripeto, è sbagliato generalizzare, perché ci sono situazioni molto positive in Italia, ma è ancora poco.
Altra clamorosa stortura del sistema italiano è il modello di scouting di moltissime società considerate top level, che preferiscono acquisire ragazzi strutturati fisicamente, a discapito di quelli più bravi tecnicamente, o comunque orientati più ai principi di gioco o al tempo della giocata. Questo perché le società, ed in primis credo anche i formatori (non tutti, è bene specificarlo) sono legati al risultatismo.
Sono totalmente d’accordo. Il risultatismo è uno dei grandi mali del calcio giovanile.
Ti dico, in generale, cosa penso io della questione che hai sollevato sulla struttura fisica: quando vado a vedere giocare i pulcini o gli esordienti mi soffermo sulle squadre che propongono gioco o principi di gioco.
Come dici tu, poi, qui vengono fuori i problemi legati al risultato della partita o del campionato: è evidente che quando una squadra propone gioco ma ha bambini o ragazzi piccoli, perde quasi sempre contro squadre strutturate fisicamente, ma io, come detto, preferisco le prime.
Sono contrario allo scouting visto in questo modo. Il calcio è un’altra cosa, anche se – per carità – si sta evoldendo, ma qui parliamo dei grandi.
Credi che siamo ancora indietro rispetto ad altre federazioni, come la Francia, l’Olanda, il Portogallo, l’Inghilterra, il Belgio, o la Germania che hanno elaborato metodiche ad ampio respiro, tra cui anche progetti educativi, e non solo quindi modelli per principi di gioco (pur validissimi)?Potrebbe essere possibile, un domani, ad esempio, ripercorrere il modello belga, secondo cui i ragazzi si allenano (durante la settimana) in parte nel loro club, ed in parte nei centri federali disseminati sul territorio?
Chiaro che se si segue questa impostazione, dovremmo certamente ritenere corrette le metodologie federali, cioè quelle disciplinate dalla nostra Federazione. Insomma, condividerle con i club.
Sono certamente delle idee valide.
Ma restiamo in Italia: abbiamo fatto questi Centri Territoriali, ma la maggior parte di essi non lavora con le idee elaborate in Federazione, tanto è vero che molti ragazzini che vanno (che poi sono sempre i selezionati) fanno lavori diversi, anche rispetto ai club, ed allora che senso ha?
Secondo me, più che seguire gli altri modelli (pur validi) servono aggiornamenti e unificazioni metodologiche, soprattutto a livello di formatori.
I Centri Territoriali sono anche giusti come idea, ma se visti come supporto. Se ognuno lavora a modo suo, non servono a niente.
Io concentrerei il lavoro sull’unificazione dei formatori.
Parliamo di stranieri.
C’è uno studio interessante sugli under 19, di quest’anno, su www.calcionazionale.it, che ha analizzato tutte le rose delle 16 società qualificate nell’ultima Youth League, tra cui le nostre tre (Inter, Atalanta e Juventus), e la media italiana è la più alta in assoluto, con ben il 38% della media.
Il retrogusto amarognolo comunque è sempre lo stesso: il trip del risultatismo. Arriviamo sempre lì.
Si è davvero impressionante. Certo, tu parli del risultatismo, ed è verissimo, ma secondo me c’è anche il discorso del business, anche a questi livelli.
Si certamente, il business, i soldi che sono dietro a queste operazioni, i procuratori, e tutto l’aggregato che gli sta intorno, ma era una domanda che Ti avrei fatto dopo, ma che a questo punto trattiamo insieme.
Beh si, è tutto legato.
Io comunque sono convinto, anche perché frequento comunque l’ambiente da anni, che ci sono società che non credono nel settore giovanile.
E’ una mia sensazione, per carità. Ma ho sempre pensato che se imposti un vivaio pensando ai profitti c’è qualcosa che non va.
E’ un mio pensiero eh. Io il profitto legato ad un settore giovanile lo considero errato di partenza.
Gli investimenti, quindi, vanno fatti sui formatori e sulle strutture.
Certamente.
Prendi anche gli stipendi dei formatori nel settore giovanile. Io credo che la qualità vada pagata. Chiaro che poi capisco anche gli allenatori che devono guardare al risultato, perché anche in categorie come i campionati regionali dei ragazzini ci sono le retrocessioni.
Sai cosa ho sempre pensato delle classifiche nei settori giovanili? Che andrebbero abolite. Io farei come all’estero, dove ci sono i “test match”.
Progettualità, Mister. Manca la progettualità a lungo termine. Diciamolo.
Esattamente. E’ così.
Tornando agli stranieri: questo flusso continuo di stranieri ci castra a livello tecnico, perché costringi i ragazzi a trasferirsi all’estero, per giocare, già a 16 anni: ne sono esempio Cudrig (2002) che è andato in Belgio, Pellegri e Franchi in Francia, Scamacca in Olanda, ed è notizia di ieri di Gnonto, dell’Inter (classe 2003), nazionale under 17, che è passato all’FC Zurigo e tanti altri.
Si, ho letto di Gnonto.
Credo che poi in alcune situazioni ci siano di mezzo altre faccende, come ad esempio i procuratori che guardano al profitto e non alla crescita.
Però è indubbio che il problema sussista, ed è altrettanto grosso.
Parliamo della Tua “A.S.D. Scuola Calcio Gigi Orlandini”, che nasce con dei macro-obiettivi. Me li puoi esporre?
Intanto noi partiamo dai 2007 ai 2014 come età, e non nasce con l’idea di insegnare solo i fondamenti tecnici, intesi globalmente, ma anche e soprattutto valori come quelli che abbiamo trattato prima, dell’etica e del rispetto.
Questi valori vanno al di là dell’ambito squisitamente calcistico, perché ricomprendono la vita sociale, e quindi noi su questo non transigiamo.
I bambini devono capire che per inseguire un sogno non è importante solo imparare il controllo, lo stop, il dominio, il tiro, ma apprendere il rispetto verso gli istruttori, verso i compagni, verso gli avversari, gli arbitri, i genitori, i dirigenti.
Ed inoltre devono anche entrare nell’ottica che è fondamentale la cultura del sacrificio.
Che approccio utilizzi a livello diciamo metodologico. Prediligi la metodica induttiva o prescrittiva? Ci puoi esporre la tua idea?
Noi seguiamo un percorso coordinativo-motorio ludico.
I bambini vengono al campo e, sotto forma di giochi, migliorano ad esempio la coordinazione, che serve poi per il gioco del calcio.
Ovviamente le basi vanno date: il controllo palla, la trasmissione, ecc. Ma li facciamo giocare moltissimo con la palla.
Una cosa che voglio sottolineare con forza è che noi non diamo le soluzioni, nel senso che in una data situazione di gioco non imponiamo il gesto finale, ma lasciamo che il bambino scelga autonomamente.
Poi naturalmente se la scelta della giocata singola è stata sbagliata, lo facciamo notare e chiediamo anche al bambino di parlarne.
Devo dire una cosa: quando ho iniziato ad allenare i giovani, ad esempio al Camp della Juventus, ero molto più schematico, ma con il tempo ho cambiato totalmente approccio. Mi sono accorto, cioè, che se sei tu ad offrire la soluzione codificata, i bambini – quando si trovano in difficoltà – non sanno scegliere se non al di fuori di quello che gli avevi insegnato, ed è una metodologia sbagliatissima.
Mi piace il confronto, ecco, e che le cose siano funzionali.
Ti ho chiesto della metodologia perché ho letto un’interessante intervista di Mister Nicolato (tecnico della nazionale Under 21), sulla Gazzetta dello Sport del 9.4.2020, dove ha detto che ci sono ancora ragazzi, in nazionale, che non sanno risolvere problemi all’interno della partita, e questo perché evidentemente sono cresciuti in settori giovanili dove si insegnano modelli codificati.
Insomma, te la metto così: Voi vi sentite questa responsabilità addosso, cioè quella di formare le generazioni future?
Ti ringrazio della domanda. Devo dire che questo interrogativo me lo sono posto, e la metodologia che usiamo spero serva ad andare nella direzione opposta da quella sollevata da Mister Nicolato.
Allora diciamo che ci sono allenatori che vogliono giocatori che pensino e giochino con le idee codificate, cioè che scelgano in base agli insegnamenti precostituiti durante la settimana.
Ma lo stesso capita anche nei bambini. Tante volte, ad esempio, mi sono “scontrato” con allenatori che mi dicevano quanto sia bello vedere bambini giocare a due tocchi. Ma non è sempre così.
Il gioco a due tocchi, se estremizzato, ti porta a crescere bambini privi di fantasia e creatività.
Il gioco e le scelte vengono determinati sempre da quello che fa l’avversario, e quindi si deve utilizzare una didattica diversa da quella codificata.
Prendi ad esempio l’allenamento 11 contro 0, che è un po’ la madre dei principi codificati: secondo me non servono a nulla, intanto non ci sono avversari.
L’aspetto mentale e motivazionale, ovviamente parametrato all’età, incide nella crescita di un bambino? Ne tenete conto nel Vostro approccio semiotico?
Per il momento ho istruttori che lavorano anche nelle scuole, e quindi sono molto di aiuto. Avendo quindi queste esperienze scolastiche percepiscono subito se vi sono problematiche, anche ed eventualmente motivazionali.
Non fraintendermi, perché la domanda è molto pertinente, ma penso che i bambini non abbiano bisogno di troppe pressioni e neppure di troppe figure professionali nelle scuole calcio.
Poi c’è anche un aspetto economico dietro, che non è determinante ma va guardato. Certe figure professionali devi anche pagarle e profumatamente, e magari non sono competenti. Per cui c’è il rischio di fare più danni.
Ma in generale, al di là dei discorsi economici, il mio pensiero è quello che ti ho esposto sopra.
Ti evito allora la domanda sulla figura professionale dello “psicologo dello sport”, che come sai sta entrando anche a questi livelli.
Beh si è collegato.
Aggiungo e concludo: dobbiamo essere noi i veri responsabili nei confronti dei nostri bambini.
Serve competenza. E se c’è competenza, non servono psicologi. Ma poi dovremmo tornare a parlare dei genitori, e non è il caso.
Certo, sono d’accordo. Parliamo di calcio giocato: segui le nostre rappresentative nazionali?
E’ vero che non solleviamo trofei da molti anni, ma io credo che, al di là della vittoria in sé, la crescita del movimento passi anche attraverso miglioramenti costanti. Come la vedi?
I miglioramenti senza dubbio aiutano a crescere il movimento.
Ti dico percò che le rappresentative nazionali non le seguo moltissimo. Seguo più il campionato Primavera.
C’è qualche talento delle giovanili che ti sta impressionando particolarmente?
Guarda, nel Milan mi piace Maldini, che secondo me ha delle buone qualità sia fisiche che tecniche.
Poi a me piacciono molto sia Cortinovis che Piccoli, dell’Atalanta.
Li abbiamo schedati tutti e tre, in tempi non sospetti.
Ma secondo te è vero che non ci sono più i veri talenti, come per esempio nella nostra generazione, con i Del Piero, i Nesta, i Totti, i Pirlo?
Si. E’ così. Mi pare evidente. Ci sono tanti buoni giocatori, ma non c’è quello che eleva.
Diciamo che manca il giocatore che cambia la squadra anche da solo, fermo restando che il calcio resta un gioco complesso e collettivizzante.
Si manca quel genere di giocatore. Sono d’accordo.
Al di là comunque del talento in sé, c’è anche da dire che purtroppo in Italia manca la fiducia di far giocare i ragazzi. Conta molto anche questo. I ragazzi devono crescere anche giocando, sbagliando.
Prendi la nostra under 21 che vinse il titolo Europeo, eravamo tutti giocatori già in serie A, che giocavamo molto anche nei club. Questo incide. E tanto.
Ti chiedo una cosa tecnica, ma parto da una mia considerazione personale: da scout quando osservo un ragazzo in età pre agonistica, guardo certamente l’aspetto tecnico e condizionale, ma prediligo anche attitudini specifiche, tra cui il tempo di gioco, l’intensità, il problem solving, ed infine un trip che mi incendia che è quella che io chiamo “percezione visiva”, che è vedere la giocata prima di effettuare il controllo (anche se, devo dire intervengono problematiche di tipo posturale).
Tu invece cosa ritieni essenziale per capire se hai davanti un calciatore con margini?
Certamente guardo più cose, ma se devo dirti una attitudine ti dico quella della percezione visiva, e quindi quando noto un ragazzino che vede la giocata prima di farla bisogna tenerlo d’occhio.
Anche perché con il calcio che va sempre più veloce e dinamico, questa necessità diventa di fatto essenziale, per non perdere tempi di gioco e per velocizzare lo sviluppo.
Esattamente.
Significa che questo giocatore è già mentalmente avanti. Ma considera un’altra cosa, perché questa tipologia di giocatore pensante avrà anche un dispendio energetico minore rispetto agli altri.
Se vuoi un nome, ti dico che ai miei tempi uno del genere era Morfeo, già da piccolo, anche a 12 anni. Poi chiaro, devi avere anche compagni che ti seguano nelle letture, ma Morfeo era incredibile. E’ un’attitudine naturale, che poi si allena anche (siamo d’accordo), ma ce l’hai dentro.
E credo che il Morfeo oggi non esiste, a mio parere, a livello giovanile. Parlo dell’Italia.
Questa tipologia di giocatori pensanti sono quasi tutti giocatori piccoli (non strutturati). Poco fa, abbiamo parlato en passant di struttura fisica. Ecco, chiudiamo l’argomento perché penso che la crescita del sistema passi anche da questa fastidiosa maieutica possibilmente da eliminare: come possiamo evitare di perdere i ragazzini con qualità tecniche elevate (ed attitudini che abbiamo visto sopra) per limiti fisici?
Hai ragione, è così. Ed è fastidioso. Come detto, io preferisco giocatori cognitivi, pensanti, e poi anche intelligenti, perché questa tipologia – se vai a vedere – è quella che sviluppa meglio la soluzione di problemi. Cioè, se un ragazzino fisicamente piccolo inizia la partita perdendo duelli contro un avversario strutturato, mano a mano che va avanti elaborerà diverse soluzioni per evitare gli scontri.
Che è poi la metodica di Iniesta, se parliamo di giocatori di alto livello. Iniesta che ricordiamolo era piccolo e gracile, ma è stato uno dei più grandi centrocampisti della storia mondiale. Idem Xavi.
Sì, esatto.
Il problema è che questi ragazzini molte società non li prendono perché non sono strutturati.
Si, è così. C’è richiesta di fisicità e struttura. Anche nei campionati Primavera, ci sono squadre che sono impressionanti per questa ragione, ma poi se prendi singolarmente questi ragazzi hanno parecchie lacune, pure tecniche.
Che poi, il problema è che, come giustamente hai rilevato, la struttura è richiesta anche nei giovanissimi, ed allora poi non lamentiamoci se mancano i talenti e la creatività.
Questo richiamo alla creatività mi consente di chiudere questa bella chiacchierata con un tracciante di un’icona indigena del calcio passato, Erik Cantona: secondo il francese, l’arte “è spontaneità”, sicchè il calcio, se accettiamo questa verità, ruota intorno alla unione tra spontaneità – che è specificazione dell’istinto ed ella creatività – ed efficacia.
Si, sono d’accordo.
Spostandosi sul versante degli adulti, la grandezza dei fuoriclasse stava proprio in ciò che riuscivano a fare unendo l’una e l’altra dote, mai fine a sé stessa.
Restando in tema giovanile, l’unione di queste due caratteristiche la considero anche io essenziale, nella visione personale del calcio.
Ti ringrazio Gigi. Salutami la tua nuova terra ed i tuoi bambini.
Sarà fatto. Ti ringrazio di questa bella discussione.